Home
 
OLOGRAM La nebbia Peaceville 2022 ITA

Da un film considerato “minore” nella produzione del famoso regista (nonché autore delle proprie colonne sonore) John Carpenter, intitolato a suo tempo “The fog”, ecco l’ispirazione per il debutto della band siracusana. Il leader, Dario “Drio” Giannì (basso, fretless bass e tastieroni vari), non è però un personaggio di primo pelo, in quanto già fondatore degli Ydra, storica band aretusea in cui suonava il basso. Nel debutto ufficiale del 1990 (intitolato “1”, per la label San Remo Hit), condivideva la sezione ritmica col batterista Bruno Rubino, il quale avrebbe poi fondato a sua volta la prog-folk-metal band chiamata Fiaba, ricevendo buoni consensi di pubblico e critica. Ma quella è tutta un’altra storia.
Tornato sulle scene, per l’esordio di questo nuovo progetto Drio crea un concept basato sul viaggio dell’uomo alla ricerca del significato della propria vita. Spalleggiato da Lorenzo Giannì alle chitarre (autore anche dei testi), le parti di batteria vengono suddivise tra Matteo Ceretto, Giuseppe Arrabito e Danilo Fontana, oltre a vari vocalist che si alternano dietro al microfono. In certi frangenti risulta fondamentale l’apporto di Matteo Blundo al violino e alla viola, come accade già nell’iniziale “Intro”, uno strumentale che davvero riporta a Carpenter e a delle immagini di una nave che procede lentamente, persa nella nebbia. I richiami sono indubbiamente mediterranei, dissolvendosi però nella successiva title-track, in cui viene calcato l’accento sulla vocazione prog-metal. Vi sono comunque degli stacchi acustici repentini, creando così tra le strofe dei momenti di “rarefazione”. Da segnalare l’assolo di moog ad opera di Roberto Giannì (si sarà capito che praticamente è coinvolta buona parte della famiglia).
Volendo concentrarsi sull’aspetto vocale, il pezzo appena citato, seguito da “Vetro di rame” e “Mediterraneo” (qui presente anche Marco Blandini), vede coinvolto Fabio Speranza in un cantato piuttosto difficile e volutamente spigoloso. Una spigolosità che aumenta col passare dei pezzi, dovendo affrontare dei testi evocativi ed ermetici, la cui metrica non risulta affatto lineare; soprattutto nei ritornelli, questa non appare certo come l’emblema dell’orecchiabilità immediata, anche se tutto ciò contribuisce a mettere in maggiore evidenza gli stacchi strumentali. Uno stile complessivo, quello delle tre tacce prese in esame, che potrebbe ricondursi al neo-prog, anche se non vi è spazio per trovate sdolcinate e posticce. C’è invece una certa cupezza piuttosto concreta e i rimandi – soprattutto in alcuni momenti strumentali della seconda parte di “Vetro…” – più che ai Genesis possono far ricordare i Pink Floyd, mentre quelli di “Mediterraneo” (sempre nella seconda parte) rammentano i campani Grimalkin. Stile che a sua volta rimanda ai Camel, anche se i componenti della band dichiararono di non averli praticamente mai sentiti, prima di incidere il loro unico album.
Dal canto suo, “Strane voci” ricorda nelle strofe i primi Porcupine Tree, quelli di bani tipo “Radioactive Toy”. Il ritornello risulta un po’ più dozzinale e se Andrea Campisi non si fosse sforzato (o non lo avessero fatto sforzare) di raggiungere per forza toni alti, con un effetto finale da urlatore strozzato, sarebbe stato molto meglio. Tutt’altro risultato quando invece canta in maniera più controllata. Da questo punto di vista, risulta inappuntabile Cristiano Sipione, che senza strafare interpreta al meglio “Straniero”, dove il filone Genesis e Marillion stavolta viene ben sfruttato e reso poi in maniera quasi cantautoriale. Lo stesso Sipione lo si ritrova su “Una rotta verso est”, sette minuti pieni che rappresentano l’episodio migliore dell’intero lavoro. Qui la musica, nel senso stretto del termine, ha ampio spazio e ci si può mentalmente perdere in soluzioni rilassanti ad ampio respiro, grazie soprattutto alle fasi giocate sulle sei corde. Chiude la strumentale “Il ritorno”, simile per un bel po’ di tempo a certe atmosfere create anche da Pat Meheny, pur non mettendo in evidenza il medesimo virtuosismo; ma nel finale la trama viene maggiormente indurita e ritornano anche i cenni mediterranei.
Come si sarà capito, la traccia d’apertura e quella di chiusura risultano differenti rispetto al resto dell’album. Un lavoro che presenta una sua varietà e che si lascia ascoltare con scioltezza per intero, pur non mostrando chissà quali picchi. Prodotto sicuramente piacevole, che lascia ben sperare per il definitivo ritorno di Dario Giannì. Nel frattempo, gli Ologram sono passati da essere progetto in studio a gruppo vero e proprio che si esibisce anche dal vivo, stabilizzandosi attorno le figure di Dario (impegnato stavolta solo al basso) e Lorenzo, coinvolgendo quindi Roberto Giannì alle tastiere, Fabio Speranza alla voce e Giovanni Spadaro alla batteria.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

ANÈMA After the sea 2017 
ANÈMA Umana città 2019 

Italian
English