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ANÈMA |
Umana città |
autoprod. |
2019 |
ITA |
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Il quartetto di Siracusa torna dopo due anni, lasso di tempo inframezzato da un EP. Nel frattempo è entrato in formazione il nuovo batterista Loris Amato, oltre al fatto che le scelte stilistiche della band siciliana hanno fatto virare innanzi tutto su testi prevalentemente in italiano e poi ad abbandonare sia il prog-metal che il prog-rock degli esordi. Questo è infatti un rock/pop che di progressivo non ha quasi nulla, simile a una specie di Timoria più maturi e misurati. Ci si auspicava che la produzione del nuovo album fosse migliore del precedente, cosa puntualmente realizzata e modellata attorno a quella patina scura che permea gli Anèma fin dalla copertina di questo secondo lavoro. Ciò che sta alla base di “Umana città” lo trovate scritto nella pagina posteriore del libretto interno, vedete un po’ se riuscite anche a capirci qualcosa… Tanto per citare le prime righe: «L’umana città ancora integra traversa la fictio del Tempo. Cataste scalene di sogni vani si cinghiano in uno Spettro amorfo che è cieco di cuore nelle lande dell’orgoglio post-semantico: l’uomo, prono a far perire le unghie-calce nell’insemprare infrastrutture del Consumo, ne agevola il passeggio adorno di esangui amori nei fumi dei fiumi». Insomma, se amate l’esposizione altisonante, cervellotica ed autocompiacente dei concetti, nella lettura proverete massima soddisfazione. Tra i brani presenti si potrebbe citare l’iniziale “Ombre”, retta dall’organo Hammond del bassista/tastierista Dario Gianni, ponendo in evidenza fin dal principio che la voce del cantante Baco Di Silenzio – simile a quella di Ray Adler dei Fates Warning, nel debutto – si esprime sicuramente meglio nelle parti acute, divenendo invece molto simile a quella di tanti vocalist nostrani (che tanto amano giocare a fare i sornioni) quando si tratta di sfruttare altre tonalità più basse. “Apartheid” ha spunti jazzati, mentre il ritornello di “Inessenzialità” suona molto piacevole, indipendentemente dai contenuti espressi. E anche un pezzo come “Controversa” dopo un paio di ascolti si scopre avere una sua intensità, che occorre comprendere. Chi comunque ha parlato di un album con tanti assoli, evidentemente non lo ha mai ascoltato! Il brano che ne ha uno degno di chiamarsi tale è il sesto, peraltro l’unico cantato in inglese: “Shake it, reply”. Qui, in effetti, Lorenzo Gianni – autore di musica e liriche del pezzo in questione – mostra di sapersi far valere sulle sei corde. E anche affermare da più parti che la seconda parte dell’album sia più viva e frenetica della prima, denota a sua volta l’assenza di ascolto. Sì, “Anomala ipnosi” è vivace, con un accenno di tastiere soliste in stile neo-prog anni ’80, anche se la parte iniziale e la fine suonano davvero irritanti per chi non è certo fan di fenomeni commerciali tipo… Paulina! Ma poi, “Inverosimile” torna alle medesime ritmiche pacate e riflessive, stessa cosa per la conclusiva title-track, uno strumentale d’un paio di minuti che fa a sua volta ritorno a quel succitato neo-prog. Vi è comunque un testo di base, che stavolta parla apertamente di arricchimento interiore e umanità. Bene, probabilmente i quattro siracusani hanno voluto sfruttare un umorismo che gioca molto tra il serio e il faceto; lo stile come detto è cambiato radicalmente, probabilmente con l’intenzione di vedere che reazioni sarebbero saltate fuori. In generale sembra che la scelta sia stata ben accolta e allora, anche se questo secondo lavoro non può certo essere consigliato a chi cerca una proposta squisitamente “progressiva”, lo si potrebbe benissimo girare a delle stazioni radiofoniche. Si tratta infatti di musica italiana che può tranquillamente essere diffusa in etere, senza timore che non venga ascoltata. In più, risulterebbe sicuramente migliore di tanti altri nomi che nel relativo settore oggi vanno per la maggiore.
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Michele Merenda
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