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JACK O’ THE CLOCK All my friends autoprod. 2013 USA

E’ difficile al giorno d’oggi trovare qualcosa che riesca a stupire un ascoltatore navigato. Abbiamo ascoltato di tutto e non ci sorprendiamo più di niente e talvolta magari finiamo col rifugiarci verso le proposte più astruse ed ostiche per risvegliare qualche emozione assopita. Ebbene, dopo aver messo nel lettore questa terza prova in studio dei Jack O’ The Clock mi sono detta che non mi era capitato di ascoltare prima qualcosa di simile. Non che sia musica marziana o un capolavoro di novella sintesi sonora o una strana accozzaglia di elementi musicali incollati a forza in modo sgraziato, niente di tutto questo, anche perché, analizzando singolarmente i diversi frammenti del tessuto sonoro, ci rendiamo conto che non ne troviamo uno che non sia a noi totalmente estraneo. A stupirmi maggiormente è il fatto che questo album sia così intensamente melodico ed affascinante, deliziosamente fruibile, pur inglobando elementi di musica da camera ed avanguardia e ancora più stupefacente è come questi arrangiamenti siano inseriti in una matrice folk di stampo americano.
A parole forse una miscela così descritta non ispira molta fiducia, ma vi assicuro che tutto funziona perfettamente, grazie forse alle intuizioni di Damon Waitkus che ha composto la quasi totalità della musica e che non si accontenta certo dei soliti strumenti musicali, passando dai più ordinari piano, flauto, dulcimer, glockenspiel e banjo, al guzheng della tradizione cinese, per poi arrivare ai tubi corrugati, ai bicchieri di vino e ad altre diavolerie… A dargli man forte ci sono altri quattro complici e più precisamente Emily Packard (salterio, viola, violino, melodica), Kate McLoughlin (fagotto, flauto e voce), Jason Hoopes (basso acustico ed elettrico e voce) e Jordan Glenn (vibrafono, fisarmonica, batteria, scatola di latta, catene, marimba, pentole e padelle), più altri figuri con fiati, Rhodes e tutto ciò che potrebbe servire all’occorrenza. Non dimentichiamoci della voce solista che è proprio quella di Waitkus e questa gioca un ruolo molto importante. E’ proprio il cantato a dare un rassicurante senso di fruibilità attraverso arie che a volte sembrano persino radiofoniche, tanto che, per associazione mentale, mi sono ritrovata a pensare ai Kestrel proprio per il forte senso della melodia, anche se i più esperti nei territori del folk troveranno paragoni più calzanti, come quello suggerito dal gruppo stesso con l’artista americano Sufjan Stevens per quel che riguarda lo stile canoro, certe orchestrazioni minimaliste e l’uso del banjo.
A questa formula ammiccante si associano arrangiamenti sofisticati ed intriganti di stampo avanguardistico che smuovono le acque e solleticano l’attenzione senza far perdere l’onnipresente senso della melodia. In questo modo folk americano e RIO si fondono non so come determinando quella piacevole sensazione di un sound fresco e nuovo per le orecchie: esemplare in questo senso è la traccia di apertura, “All my Friends are Dead”, con il banjo che si intreccia a fagotto, vibrafono, archi e salterio e la voce di Waitkus a guidare l’ascolto. Gli Henry Cow possono benissimo essere chiamati in causa, come anche il repertorio dello stesso Fred Frith, artista che si è tra l’altro espresso molto positivamente riguardo questa produzione discografica, ma ogni stravaganza viene sempre utilizzata per dare una piacevole sensazione di complessità che può essere percepita a un livello di ascolto più profondo mentre in superficie l’immagine sonora rimane pacata e luminosa. Impossibile quasi non lasciarsi trascinare dai ritornelli cantabili di “The Pilot”, con la sua apertura quasi in stile Supertramp, mentre sotto sotto il vibrafono, gli archi e svariati oggetti, costruiscono un substrato musicale particolareggiato e stuzzicante. Nella maggior parte dei casi i brani sono brevi e spesso separati da fugaci intermezzi strumentali, dando un’idea generale di movimento e variabilità, accresciuta dal fatto che in effetti ogni pezzo è diverso dall’altro, seppure non si sperimentino stacchi improvvisi durante l’ascolto, fra una stranezza e l’altra, con generose dosi di melodia e tante piccole stravaganze disseminate qua e là. Si discosta dalle altre per lunghezza, per i suoi tredici minuti abbondanti, una insolitamente notturna e lenta “Old Friend in a Hole” con graziose percussioni metalliche, tromba e trombone a rendere più cupe le atmosfere, loop di Fender Rhodes e una vibrante marimba. Per quel che mi riguarda, volendo chiudere i conti, credo proprio che questo album girerà ancora molto nel lettore e scommetto che troverà persino spazio nella mia personale playlist di fine anno.


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Jessica Attene

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