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OPETH Sorceress Nuclear Blast 2016 SVE

Muta ancora pelle la creatura di Mikael Åkerfeldt. Dopo “Pale communion”, in cui la trasformazione aveva portato ad un disco in cui abbondavano le pagine di new-prog sinfonico, influenzate probabilmente anche dalle collaborazioni con Steven Wilson, il gruppo svedese punta nel 2016 su un nuovo lavoro caratterizzato da dinamiche più particolari. In esso, infatti, vi troviamo una serie di composizioni che viaggiano tra hard-prog, folk-rock e psichedelia. Åkerfeldt e soci sembrano non conoscere mezze misure: a soluzioni deflagranti, con ritmi serrati, con il basso che non lancia note, ma cariche esplosive (esaltate fin troppo dalle scelte di produzione), con guitar-solos decisi e veloci, si contrappongono, a volte anche in una stessa traccia, momenti acustici molto delicati e permeati da un’aura visionaria che li rende spesso bizzarri. Ne consegue che il punto di forza principale di “Sorceress” sia da individuare proprio in queste dinamiche così accese che si incontrano man mano che scorre la musica. I due pezzi iniziali già danno forti indizi sui contenuti del lavoro: se “Persephone” è una breve e raffinata introduzione acustica, con la chitarra a spingere verso un’atmosfera malinconica, sorretta ulteriormente da un recitato femminile nel finale, ecco che la title-track vira verso sonorità ben più robuste, con un hard-progressive duro e puro, caratterizzato da riff incandescenti, echi sabbathiani e chi più ne ha più ne metta. “The wilde flowers” dona inizialmente un nuovo attimo di calma, ma anche in questo pezzo gli Opeth macinano un bel rock duro travolgente. Qui, come in “Crysalis” e “Era”, tra ruggiti di chitarra e folate di organo, si avverte un sound legato ai Deep Purple e agli Uriah Heep dei bei tempi, anche se potenziato e portato nel nuovo secolo dal “trattamento Åkerfeldt”. Quando la band decide di approfondire maggiormente le tessiture acustiche, viene a galla, un po’ a sorpresa, una forte influenza esercitata dai Jethro Tull. Non solo nella bellissima “Will o the wisp”, dove le melodie, gli arrangiamenti e gli arpeggi di chitarra acustica ricordano molto da vicino la band di Ian Anderson nel suo folk-rock bucolico e un po’ stralunato, ma anche in quei momenti in cui i musicisti si cimentano in combinazioni elettroacustiche intriganti, nella ballad sognante “Sorceress 2” o anche in “The seventh sojourn”, dove emergono sapori orientali che sembrano rimandare a certe soluzioni adottate in “Roots to branches”. Ci sono poi le venature acide di discendenza seventies, in una struttura complessa e avventurosa, tra psichedelia e hard-rock di “Strange brew” (sicuramente una delle composizioni più riuscite) ed un altro brano, “A fleeting glance”, che presenta quelle dinamiche già descritte, attraverso le quali si avvicendano frammenti delicati tulliani e impulsi elettrici con ottimi intrecci strumentali. Si conclude come si era iniziato: sonorità docili, elegia, voce femminile per “Persephone (slight return)”. Non ingannino i continui riferimenti agli anni ’70: le influenze citate risalgono a quei tempi, ma i suoni che fuoriescono durante l’ascolto di “Sorceress” sono moderni e fanno apprezzare ulteriormente l’abilità compositiva di Åkerfeldt, che in questo album mostra ulteriore potenziale. Ci saranno sempre i fan della prima ora che rimpiangeranno gli esordi death, ai quali potrebbero aggiungersi tutti quelli che si aspettavano un album che presentasse tutti gli stilemi del rock sinfonico. Potrà anche essere difficile seguire i percorsi degli Opeth, sempre pronti a cambiare direzioni e a sorprendere per le loro scelte, ma alla fine, analizzando i contenuti musicali di “Sorceress” non si può negare che la band svedese ha fatto di nuovo centro.



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Peppe Di Spirito

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