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QUANTUM FANTAY Yemaya orisha Progressive Promotion Records 2019 BEL

Continua il sodalizio tra la label tedesca PPR e il gruppo space-rock belga, per quello che è di fatto il quarto lavoro su otto complessivi in studio. Come al solito, digipack accurato e dalle tinte sgargianti, professionale ed accattivante. Si registra inoltre l’ingresso del nuovo batterista Luis Verlinden, oltre alle partiture di Charles Sla, flautista che faceva a suo tempo parte del gruppo e successivamente fuoriuscito, per poi tornare di tanto in tanto come ospite. Il contenuto è più o meno il solito rock spaziale di matrice Ozric Tentacles, anche se qua e là vi sono anche altre intuizioni compositive. Come da titolo, l’album strumentale – con l’eccezione di alcune voci femminili – è incentrato sula figura della dea africana Yemaya, forma contratta di Yey Omo Eja, cioè la “madre i cui figli sono i pesci”. Dea Madre per antonomasia della cultura Yoruba, tradizione sviluppatasi prima nel continente africano e poi nella zona caraibica, questa divinità delle acque è stata anche la genitrice degli Orisha sempre riportati nel titolo, almeno quattordici di essi (anche se in alcune tradizioni è lei stessa un Orisha). Si tratta di semi-divinità, che una volta entrati in contatto con altre trazioni religiose come quella cattolica hanno cominciato a mescolarsi con le peculiarità dei santi cristiani. Ma la stessa Madre, in tradizioni latinoamericane come la Santeria, diventa la Madonna della Regola. L’argomento trattato dal gruppo di Lokeren è ampio e parte dalle origini più antiche, nelle profondità oceaniche. Ecco quindi cominciare con la suite “Veautifull Mocean” divisa in due brani, il cui primo pezzo è la title-track che sfiora i tredici minuti. Un montare lento che si solleva dalle acque poco dopo il terzo minuto. Il sound è inequivocabilmente indirizzato sul versante Ozric, anche se vi sono magari alcuni picchi più duri e si dà maggiore spazio ai synth del leader Pete Mush, oltre al fatto che le puntate di flauto fanno venire in mente paesaggi andini piuttosto che quelli mediorientali. La seconda parte è invece denominata “Mami Wata”, vale a dire un’altra divinità africana delle acque, della parte centro-occidentale, raffigurata come una sirena mezza donna e mezzo pesce, tremendamente possessiva. Quasi dieci minuti, l’ideale continuazione di quelli precedenti, sulla medesima scia, anche se forse più fluida nonostante la maggiore vivacità, con il flauto molto più presente.
“Riddles Of The Sphinx” è ancora una volta in stile tipico della band di Eddie Wynne e farà la gioia dei fan più incalliti del genere, mentre denota una originalità maggiore “Gemini Flower”, con delle intuizioni quasi floydiane, simili a quelle di Guthrie Govan su “Hand. Cannot. Erase” (2015) di Steven Wilson. Molto evocativa risulta poi la conclusiva “Serra Da Estrela”, solenne come la catena montuosa portoghese da cui prende il nome. Ottimo il lavoro dei sintetizzatori di Pete Mush, a cui si aggiungono di tanto in tanto i commenti chitarristici di Tom Tas, per un finale assolutamente denso e suggestivo sottolineato dalle note del flauto tra i sequencer che poi si interrompono improvvisamente.
Ancora una volta niente di nuovo, lo si era già detto in apertura. Solita proposta, comunque ben fatta come è solito del gruppo belga. Indubbiamente, al di là della poca originalità, rimane sempre un bel sentire.



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Michele Merenda

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