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SAENS |
Prophet in a statistical world |
Cyclops |
2004 |
FRA |
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Concettualmente, il terzo album dei francesi Saens nasce come un lavoro all’insegna dell’ambizione: una narrazione divisa idealmente in due atti, la cui ispirazione attinge dai vari romanzi del ‘900 inquadrabili nel filone letterario della dystopia (o “anti-utopia”) ossia ambientati in un ipotetico futuro caratterizzato da un controllo sociale oppressivo ed un governo totalitario (ne sono celebri esempi “1984” di George Orwell, “Brave New World” di Aldous Huxley fino a quel “Kallocain” di Karin Boye che ha ispirato anche i Paatos).
Musicalmente, le coordinate non si spostano molto dallo stile già felicemente consolidato con il precedente “Escaping from the hands of God” del 2002, ossia un new-prog molto melodico con momenti “orchestrali”, cantato in lingua inglese dal bravo vocalist/bassista Pascal Bouquillard e la chitarra di Vynce Leff (anche valido tastierista) a condurre le danze con il suo tipico timbro liricamente oldfieldiano. Da segnalare il ritorno nelle fila della band del drummer originale Stephane Gelle, presente solo come ospite (al piano!) nel precedente lavoro.
La prima parte dell’album, che forma la suite “Dystopian dream”, inizia a ritmi sostenuti con “xx84” ma già nella successiva “Lenina” (un personaggio chiave del già citato “Mondo Nuovo” di Huxley) possiamo apprezzare la tipica alternanza tra scoppiettanti duelli chitarra/synth, cori solenni e parentesi acustiche dal tono drammatico. Tutto ciò enfatizzato dalla voce di Pascal (che tra l’altro non se la cava affatto male con l’inglese) in bilico tra il timbro di Nick Barrett e quello di Euan Lowson. Proprio nomi come Pallas e Pendragon possono in effetti essere usati come pietre di paragone: i nostri Saens elaborano una versione di prog sinfonico che discende chiaramente dalla scuola anni ’80 ma aggiungono un tocco classicheggiante in più (come gli arpeggi di piano e l’organo a canne di “Time machine”) giungendo ad un suono pieno e ricco come raramente accade di ascoltare, sia pure non troppo innovativo. Da segnalare senz’altro “Forbidden dreams”, dominata dalle chitarre di Leff e Benoît Campedel, che nei suoi sei minuti riesce a fondere alla perfezione la maestosità del primo Oldfield alla capacità di sintesi che dava vita ai gustosissimi assoli di Steve Rothery negli anni d’oro.
La seconda parte dell’album, racchiusa da un’ideale suite eponima, è dedicata alla personale interpretazione dell’utopia negativa da parte dello stesso Vynce Leff, autore dei testi, e segue più o meno il canovaccio della precedente ma con un approccio un po’ più prossimo alla rock opera, vedi i momenti di raccordo tra i brani veri e propri. Tra questi ultimi la palma del vincitore spetta alla lunga “The Prophet”, che ripropone un ricorrente tema chitarristico su una base fatta di corni, campane ed archi ed un basso sempre molto “presente” e partecipe… tutto molto sinfonico, senza dubbio!
Se solo dovessi muovere una critica al lavoro probabilmente sottolineerei alcune prolissità nello sviluppo di certi brani - specie nella seconda parte (“Revolution”, ad esempio) - che rischiano di allentare un po’ la tensione, ma evidentemente la tentazione di riempire un CD fino all’orlo con una settantina di minuti di musica è troppo forte per poter resistere.
L’edizione limitata contiene come bonus un secondo CD (“Dodecamania”) per un totale di quasi un’ora aggiuntiva (di cui consiglio un ascolto separato). Qui troviamo nuove incisioni dei due brani portanti dell’album di debutto “Les regrets d’Isidore D.” con nuove liriche in inglese ed un’accentuata patina marillioniana, più un’ambiziosa suite con elementi di musica dodecafonica (“Les souffrances de jeune Pierre”) in cui, complice forse l’uso della lingua natia, gli ingredienti new-prog lasciano spesso il posto ad un prog teatrale di scuola francese.
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Mauro Ranchicchio
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