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JINETES NEGROS |
Omniem |
Mellow Records |
2007 |
ARG |
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Che cosa deve fare un gruppo che ha all’attivo tre dischi, uno migliore dell’altro, per essere conosciuto dalla “vasta massa” del pubblico progressive?
Il gruppo argentino si meriterebbe molto di più in termini di visibilità e soddisfazione da parte di questo mondo, perché ha veramente pochi punti deboli.
Il loro hard prog con molte e non scontate influenze provenienti dal loro continente, un senso e un gusto per la melodia con pochi rivali attualmente, un cantante con due palle così (nel vero senso della parola perché non ha bisogno di falsetti, acuti e gridolini per prendersi la scena), non devono passare inosservati.
Un gruppo che fa un disco di dodici brani con nessun, e sottolineo nessun, pezzo brutto, banale e riempitivo non può essere accantonato così nel calderone delle uscite prog.
Ci sono più idee melodiche in questo cd che in decine di altri lavori di gruppi più famosi e pompati che vengono dal Nord Europa (per citare la zona geografica che è più amata dal progster medio degli ultimi anni). E’ un disco che svaria tra i generi ma che rimane solido nei punti di riferimento. Il gruppo argentino fa quello che dovrebbe fare qualsiasi band che si cimenta con il prog e vuole rimanere credibile: guardare alle esperienze musicali passate ma farsi riconoscere. In questi brani i cavalieri neri (traduzione di "jinetes negros") non si inventano niente ma si capisce che i pezzi sono farina del sacco del gruppo e non copiano solo per il gusto di copiare.
Si parte, in maniera pomposa e aggressiva al punto giusto, con “Signo de los tiempos” e “La gesta del poder” (e farete fatica a non cantare il ritornello di questa canzone).
In “Epico” questi riferimenti musicali cominciano ad unirsi ad elementi folk locali grazie anche ad un flauto delizioso che incornicia questo bel pezzo strumentale.
“El canto del noctambulo” è il pezzo più lungo di questo lavoro con oltre sette minuti e racchiude bene gli elementi sonori più importanti degli Jinetes Negros. Su un testo di Nietszche atmosfere notturne, voci calde e profonde che ti scaldano il cuore si alternano a momenti quasi jazzati.
Qualsiasi gruppo hard rock si metterebbe in ginocchio per comporre un riff come quello di “Dieciséis lirios de eternidad”. Anche un pezzo che potrebbe essere hit in qualsiasi radio come “Su mision”, e che ricorda molto alcune cose degli Extreme, non risulta per nulla banale… Come non risultano banali le melodie che sfociano quasi nel blues di “Un sabor amagro”. Per chi ama le atmosfere folk rock l’ascolto di “El hombre del bosque” è obbligato: uno dei pezzi che si eleva di più per qualità rispetto alla base già più che buona. E farete fatica a dimenticare la cavalcata sonora di "Pagaràs por mì" con le tastiere e il pianoforte suonate da Octavio Stampalia.
C’è spazio anche per un brano cantato in inglese come "Against the world again" che, usando strumenti locali come il siku (una specie di flauto di pan) o il charango, riesce ad allontanarsi da quell’atmosfera di ballata alla Scorpions.
Qualche appassionato potrebbe aver qualcosa da ridire sull’impianto musicale troppo basato sulla melodia, qualcun altro potrebbe rimaner male da certe atmosfere marcatamente hard rock, io punterei il dito più che altro sul complesso e non sui singoli aspetti che rendono speciale questo disco.
E’ un disco nello stesso tempo semplice e non banale, è uno di quei dischi per tutti e che tutti possono apprezzare sia il novizio sia il più navigato degli ascoltatori.
E’ un disco dove troverete Marcelo Ezcurra uno dei migliori cantanti rock degli ultimi tempi.
E’ il mio disco dell’anno e non è poco…
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Antonio Piacentini
Collegamenti
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