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Quali membri primigeni del movimento Rock In Opposition, gi Univers Zero hanno sempre dato impronta di determinata e caparbia avanguardia alla propria musica. E’ nota la loro predisposizione all’utilizzo di varie forme stilistiche, con approccio spesso da precursori. La Cuneiform Records, in questo periodo di ampio lavoro di riscoperta di brani rimasti nei cassetti di ogni gruppo sotto contratto, rispolvera un periodo della band nel quale predominava il suono elettrico e poderoso dell’ensemble, ben miscelato con elementi gli acustici tipici della chamber music quali clarinetto, sax, violini e viola, tenendo presente che quello fu il loro periodo “più accessibile” per un ascolto, forse, indirizzato ad un pubblico se non più vasto, almeno più eterogeneo e meno di settore.
Non male il lavoro di ripescaggio e pulizia, ma ben lontano dall’eccellenza decantata negli strali pubblicitari, soprattutto la batteria appare con un suono poco piacevole e poco presente e la cassa troppo spesso si riconosce solo per la posizione cromatica e non certo per il suo suono. Non per questo però si può screditare questo lavoro, anzi. I contenuti sono splendidi e l’amalgama fatta da varie influenze sonore (F. Zappa, Henry Cow, Bèla Bartòk, Igor Stravinsky) e da tutto ciò che di personale e oggettivamente innovativo è inserito dal gruppo si presenta, ancora una volta, al massimo livello.
I brani, otto e di varia durata, sono live inediti, registrati in Belgio e in Germania nel periodo 1984 – 1986. Alcuni di stessi sono presenti anche nei successi album di studio, “Uzed” del 1984 e “Heatwave” del 1986, ma con approccio ed esecuzione sensibilmente differente. Lo scorrere delle partiture ci presenta una band in gran forma che trova un bilanciamento elettroacustico di grande rilievo e un’esposizione tematica ben distante da ogni forma di noia. E’, in pratica, un turbinare di sequenze concatenate che vanno dalle sottili atmosfere di violino della prima parte di “Presage”, che esplodono nella follia ipnotica della seconda parte, passando per il puro esercizio alla Soft Machine di “Ligne Claire” per giungere al finale totalmente sbarazzino e improvvisato di “L’Etrange Mixture du Docteur Schwartz”. In mezzo c’è tutto l’alto spessore di un percorso sonoro che non ha bisogno di svecchiamento, un percorso talmente avanti da risultare adatto ad ogni momento passato e futuro. Nell’esposizione, anche nelle sue porzioni più complesse o dove l’intrico diviene appena leggibile, non ci sono stratagemmi, quello che esce è l’anima che diventa un fiume sonoro. Non mancano spazi di assoluta eleganza, seppur in trame oblique e oscure, quasi che un vestito d’alta sartoria sia drappeggiato di pesanti tessiture dai freddi cromatismi. E tutto è sempre animato da un contrappunto deciso e quasi liberatorio. Come se da un lungo e intricato labirinto si sbucasse in un’aperta agorà dove un sole maligno, accecante, ustionante ti fa, solo per un attimo, rimpiangere la tetraggine del cunicolo, che comunque non tarda a risucchiarti nuovamente per sbatterti in un altro intricato, umido e malsano dungeon musicale dove il clarinetto è tuo compagno e guida e la poliritmia incostante di Daniel Denis è sorella, nel gioco delle parti e della libertà espressiva che tutto questo genera e nasce dall’ascolto della lunga “The Funeral Plain”.
Forse è inutile dirlo, ma chi si sente di poterlo amare, domani dovrà andare a comprarsi questo disco.
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