A dieci anni esatti di distanza dal cd di esordio “Once upon a time”, ritornano alla prova discografica gli statunitensi Andeavor. Realizzato quel disco, il gruppo rimase attivo per un paio di anni e, dopo la defezione del tastierista, registrò dei brani che solo oggi vedono la luce. Con una formazione ridotta ora a trio chitarra-basso-batteria, si conferma un sound aggressivo, ma, complice l’assenza di un keyboards-player, il discorso musicale di “The darkest fear”, pur non modificando certe basi del debutto, vira su coordinate leggermente diverse. Si avverte sempre la ricerca di una certa complessità, tra variazioni ritmiche e solos intensi, ma stavolta ci si allontana dall’imitazione quasi pedissequa del prog-metal dei Dream Theater (la cui influenza continua comunque ad avvertirsi) e si possono percepire maggiori analogie con Queensryche e Rush. Dopo un album convincente, la scelta di rinunciare alle tastiere è coraggiosa, ma se si può apprezzare la voglia di rischiare e di provare ad essere più personali, bisogna allo stesso tempo ammettere che questo sound più “scarno”, forse anche più ruvido, non convince del tutto. E non si tratta solo di un fatto di timbriche: anche se, come detto, si possono avvertire quei cambi di tempo e quella perizia strumentale che tanto attirano in questi campi, è il songwriting in generale che sembra far perdere colpi alla band. E’ avvertibile, infatti, una stanchezza compositiva che rende un po’ piatte le composizioni presentate in questa occasione. Qualche intuizione interessante qua e là è pure avvertibile, come alcune brillanti dinamiche (vedi la seconda parte di “Curse the storm”), delle frasi melodiche indovinate e certe soluzioni strumentali interessanti (in particolare in “Chasing the Sun”), ma tutto ciò non basta a risollevare le sorti di un album che resta ben distante dalla qualità del suo valido predecessore.