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VAN DER GRAAF GENERATOR A grounding in numbers Esoteric/Cherry Red 2011 UK

Sono arciconvinto che nessun musicista, nessun autore che abbia fatto, fino a ieri, sano e spontaneo progressive, potrà mai avere successo nel mondo musicale, pop o rock che sia.
Questo mio assioma di partenza serve solo a dire che le voci, soprattutto dello stesso Hammill, ma non solo sue, secondo le quali ci sarebbe in atto il tentativo di un graduale avvicinamento verso forme meno progressive, sono delle boiate. Io capisco la frustrazione di un bravo autore che per anni abbia dedicato anima e corpo alla musica con convinzione e coerenza e che si trovi a combattere con vani tentativi di uscire da un mercato di nicchia, mercato con mura così alte da non lasciare quasi filtrare più luce. Intendiamoci, vorrei essere smentito, ma secondo me non ci sarà nessuna possibilità, né per Hammill, né per chiunque altro.
Notiamo innanzitutto, ammesso che oggi i VDGG siano una band più o meno stabile, che questo è il periodo più lungo di vita dei VDGG, che altrimenti hanno avuto vita brevissima e a spizzichi: dal ’68 al ’71, dal ’75 al ’76, e infine dal 2005 ad oggi, cioè “ben” sei anni assieme.
Questo nuovo episodio della saga vandergraffiana è arrivato un po’ all’improvviso, qualche voce, sì, ma non il solito tam-tam che carica di ansia, di speranze e di aspettative. Motivo? Chiaro, l’insicurezza di un passo falso, di una sgambata con poco senso e con la folle paura di non piacere né da una parte né dall’altra e, con questo, torniamo all’assioma iniziale.
Resta il fatto che, per nostra fortuna, il vociferare di inserimenti di elementi pop all’interno di questo nuovo lavoro, ha la stessa forza del rischio siccità in Liguria dell’autunno 2010.
Che Hammill fosse un appassionato studioso di scienze esatte lo si è capito da anni. Prima è stata la chimica: “HtoHe”, “Ph7”, “Entropy”, ecc. ecc., poi la geometria, la matematica e chissà quel che verrà. Oggi Hammill tenta di riportarci a cose terrene grazie ai numeri, e lo fa a partire dal giorno deciso per l’uscita ufficiale cioè il 14 marzo, che con la data messa all’anglosassone viene fuori 3 e 14, cioè il Pi greco. Questa passione, nel caso specifico del disco, ha generato una serie di strutture arzigogolate, dove la matematica e la geometria si danno da fare per assemblare tempi dispari e poliritmie, temi spigolosi e complessi, strutture che hanno sicuramente richiesto arrangiamenti lunghi e complessi. Sono brani brevi, piccoli tasselli che vanno a creare un’unica immagine, che sembra nata dalle poliedriche figure di Maurits Escher. Lo stesso artista che lo stesso Hammill citò nel brano “Shell” del disco “Skin” del 1985 e che come lui fu grande appassionato e studioso di matematica e fisica.
Altra cosa che salta all’occhio dal booklet è che la composizione dei brani è ascritta al trio e non al solo Hammill come quasi sempre accaduto. Non so se questo voglia dire molto o niente, vero è che c’è molta varietà nei risultati musicali, anche se il lavoro è strutturato a mo’ di concept, senza soluzione di continuità tra le tracce, altra cosa ormai palese è che Dave Jackson manca, e sempre di più direi. Le caratteristiche metamorfiche dell’intero disco si riflettono in quasi tutti i brani, che diventano formule, giostre, altalene, sfasamenti temporali e strutturali, nel tentativo di ricondurre – forse solo in apparenza - sistemi governati del caos, entro modelli matematici, in un esercizio che è ben più ampio del classico gesto del gergo musicale.
Parliamo un po’ delle singole tracce, partendo dalla più discussa “Highly Strung”, brano che, a tutti gli effetti, non ha nulla di pop. Mi spiace per chi pretenda di ascoltare tra le righe cose strane, ma nessuna classifica odierna si lascerà mai penetrare da un brano come questo, neppure il lancio internazione come singolo avrà senso. L’inizio sembra qualcosa di pop? Sbagliato, sembra semplicemente l’inizio di “Nadir’s Big Change”. Il ritornello sembra qualcosa di pop? Sbagliato, sembra semplicemente qualcosa di avanzato agli album di Hammill degli anni passati “Skin” in primis, ma vediamo di riascoltare anche “The Noise” e “Roaring Forties”, giusto per trovare analogie melodiche con questo contestato ritornello. Un po’ ovunque spuntano tempi dispari, ma alcuni brani ne fanno uso decisamente massiccio: “Mr Sand”, “Bunsho”, “All Over The Place”, “5533” e su di essi come una coperta tagliata su misura si stende la voce di Hammill: non c’è metrica che non riesca ad affrontare. Poi alcuni gioielli che inusitatamente sembra possano sparire nel marasma melodico e ritmico del disco: “Red Baron” un drammatico strumentale che riporta ai tempi dei “Long Hello”, “Smoke”, apparentemente banale, con un 4/4 di base su cui ruotano sincopi e poliritmie melodiche di sconsiderata difficoltà. Giusta chiusura con la spettacolare “All Over the Place” e il suo finale sinfonico, ricco e potente, per questo disco che poteva quasi chiamarsi “Nadir’s Big Return”, non tanto (o non solo) musicalmente, ma per le scelte e per l’obiettivo di “nuovo corso”.
Parlare ancora delle qualità tecniche dei tre è forse superfluo, ma mi piace dare menzione di merito ad un eccezionale Guy Evans e un po’ di rammarico per il parziale “sottoutilizzo” di Banton a vantaggio delle chitarre di Hammill, ma è una cosa mia e basta, perché adoro i suoni di quegli organi auto costruiti dall’Ing. Banton.
In fondo a tutto c’è ancora qualcosa di non detto, di volutamente taciuto, che nessuna formula matematica sarà in grado di risolvere. Non c’è prostaferesi che tenga, non ci sono identità Eulero o sequenze di Fibonacci che valgano, non c’è funzione di cosecante iperbolica che ci possa salvare, perché neppure la formula più dettagliata spiegherà mai la coerenza e la forza espressiva di questo gruppo. E arrivati qui, forse, non c’è altro da dire.


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Roberto Vanali

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