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ACCORDO DEI CONTRARI |
Kublai |
autoprod. |
2011 |
ITA |
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Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza (A. Tarkovsky). Il passaggio dagli incastri Escheriani dell’esordio a dinamiche musicali più duttili e fluide dà come l’impressione di una ritrovata freschezza. L’atteso ritorno del gruppo bolognese a sorpresa ci proietta verso i territori del Jazz Rock, aromatizzato da piacevoli fragranze Canterburyane, a discapito della componente cameristica che era più marcatamente rappresentata in passato e che ora si diluisce in un magma musicale molto più caldo e dinamico. Questa scelta, unita a un vivace impatto live (penso che il fatto di aver registrato l’album in presa diretta non sia casuale), è decisamente lontana dalla rigida esecuzione di uno spartito musicale, e proietta il gruppo verso i terreni aperti dell’improvvisazione e della contaminazione ma soprattutto ci permette di godere di un’opera molto più coinvolgente e vitale. Tutta la musica presente su questo album è più o meno innervata da una decisa base rock che le imprime una grande energia. Ne è prova “Dark Magus”, con le sue bellissime derive strumentali, un pezzo molto istintivo che si perde lungo sentieri intrisi di psichedelia, con il suo sound carico e riverberante. Oppure la splendida “Più limpida di Ogni Impressione Vissuta, Part I”, con le sue accelerazioni e i suoi lunatici cambiamenti di atmosfera. La passione per il Jazz, e per la scena Canterbury in particolare, si rende manifesta a partire da alcune scelte di scaletta, come dimostra il pezzo di apertura, “G.B. Evidence”, in cui viene sviluppato, in un’ottica comunque Prog Rock, un tema musicale di Thelonious Monk, con la chitarra di Marco Marzo che duetta con uno Hammond graffiante sulla base di ritmi indiavolati. E soprattutto troviamo un brano, “L’ombra di un Sogno”, cantato da Richard Sinclair in persona (fra parentesi, si tratta dell’unico cantato dell’album) che ci porta nel cuore di un paesaggio dipinto a tinte grigie e rosa. Ogni brano presenta il suo carattere e ogni episodio di questo album ha le sue particolarità. “Arabesque”, per esempio, prende in prestito alcune fragranze della tradizione araba, grazie anche all’aiuto di una bella introduzione acustica realizzata con il l’oud, ma soprattutto grazie alle sue scelte melodiche, molto caratteristiche, che vengono però a mescolarsi con dei modi decisamente occidentali, con qualche tocco lisergico. I due universi del gruppo si incontrano infine nella conclusiva “Battery Park”, in cui si mescolano visioni sinfoniche a impasti Jazz e si viene a creare un bellissimo equilibrio di stili, con una performance di Giovanni Parmeggiani al piano che regala forti emozioni: qui i Genesis di “Selling England” si incontrano con i National Health attraverso mille oscillazioni e così, ancora una volta, viene raggiunto l’accordo dei contrari. Un plauso particolare va alla scelta delle timbriche, tutte calde, tutte splendidamente vintage, con una registrazione che rende giustizia a queste bellissime sonorità. In particolare il suono del piano elettrico è decisamente vibrante e lo Hammond piacevolmente ruvido, con un uso infine del Moog e dell’Arp Odissey non invadente ma in grado di conferire a quest’opera un tocco piacevolmente sinfonico. Devo dire che questo album è riuscito a sorprendermi e a farsi amare fin da subito, non che il loro esordio fosse da buttare via (e ricorderete sicuramente l’entusiasmo con cui è stato accolto) ma riuscire a ridisegnare e ad espandere i propri confini e le proprie capacità non è da tutti, specialmente se si raggiungono tali risultati. Questa nuova prova, per dirla tutta, riesce ad aggiungere ciò che prima mancava: l’emozione, il pathos, il colore. In conclusione temo che sarà davvero difficile che “Kublai” esca dai primissimi posti della mia lista dei migliori del 2011 e scommetto che ci sono buone possibilità che entri anche nelle vostre preferenze.
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Jessica Attene
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