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OLD ROCK CITY ORCHESTRA |
Once upon a time |
M.P. & Records |
2012 |
ITA |
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“C’era una volta…”, è proprio il caso di dirlo. Gli orvietani, infatti, si pongono come antesignani di quel caro vecchio rock tinto di psichedelia e blues, a tratti hardeggiante, che ha impresso la propria impronta storica a cavallo degli ultimi anni sessanta e soprattutto i primi anni settanta. Un genere apprezzato da molti e, diciamolo pure, un po’ deprezzato da chi invece ha sempre preteso partiture complicate ed ampollose ad ogni costo. Disquisizioni di gusti personali a parte, il gruppo nostrano nasce nel 2009 da una decisione del chitarrista Raffaele Spanetta e della cantante/tastierista Cinzia Catalucci, i quali avevano già militato assieme in altre realtà musicali. Con l’aggiunta del bassista Giacomo Cocchiara e del batterista Michele Capriolo, la band va on the road seguita dal violinista special guest Laurence Cocchiara. L’anno seguente si lavora ad un promo che verrà poi inciso nel 2011, passato integralmente per radio ed ampiamente recensito anche su queste pagine virtuali. In quella sede, l’augurio era che gli umbri non dovessero come tanti altri auto-prodursi e che quindi trovassero un’etichetta capace di credere in loro. La M.P. Records sembra aver risposto positivamente all’appello, mettendo sul mercato un prodotto che sa molto, fin dal booklet, di un’epoca risalente a davvero tanti anni fa. La carinissima Cinzia porta alla mente tante illustri colleghe dell’epoca che fu, assieme ai relativi gruppi madre: Candie Givens dei Zephyr, Grace Slick dei Jefferson Airplane (ma anche quella solista) e soprattutto Linda Hoyle degli Affinity. Precisi rimandi ad un determinato rock americano che spaziava dalla citata psichedelia blues ad un prog parecchio jazzato, quindi; diciamo che, purtroppo, si sente la mancanza di un tastierista come Lynton Naiff, in quanto la Catalucci fa un’ottima figura alla voce e si destreggia bene nei riempimenti tasteristici vintage, ma di sicuro, da quest’ultimo punto di vista, un professionista dal profilo simile a quello del personaggio sopra citato avrebbe donato all’album un quid di non poco conto, magari spronato da qualche assolo di chitarra in più, che non sarebbe stato affatto male. L’inizio è affidato a “Stand up” (e riaffiorano altre memorie…), con ottime strofe, terribilmente intriganti, che saranno riascoltate più e più volte, ma con un ritornello che per rimanere memorabile sarebbe dovuto essere meno sbarazzino e più enfatico. Un inizio arrembante introduce “Another flower”, debitore anche come tematiche proprio degli Affinity: brano rock intriso di tanto jazz e poi di lisergia californiana. “Black hand in the sky” e soprattutto “Ufo” hanno come riferimento i Jefferson più impegnati, mentre “This is the last day” è un blues che penetra nell’essenza del dolore esistenziale come faceva a suo tempo la Joplin (ma niente voce alla carta vetrata), con intermezzi chitarristici che alzano la tensione elettrica. Per gli amanti del genere, da ascoltare in religioso silenzio per tutto l’arco dei suoi sei minuti, approdando ad un finale addirittura in stile crimsoniano. Come contrappasso, “Once upon a time rock ’n’ roll” è – lo suggerisce il titolo stesso – un rock ’n’ roll scanzonato, una sorta di ode allegra ad un intero periodo musicale. Il basso che introduce “I want to keep on dancing” rammenta l’importanza storica dell’esperienza psichedelica dei Beatles e, sorpresa, la Catalucci si produce in un assolo che fa la differenza! Una sorpresa ancora più grande la si ha poi in “Tonight with you”, la cui voce solista è affidata a Spanetta, il quale si muove lungo i sentieri tracciati dalla chitarra acustica e i tornanti sfumati del flauto di Chiara Dragone. Per la sua particolarità, che chissà per quale motivo fa pensare anche ai Circulus, probabilmente è uno dei momenti migliori in assoluto, soprattutto con quell’assolo elettrico west-coast messo a sfumare nel finale. La summa finale è “Swan of the lake”, con tanto di trio d’archi. Qui forse il punto di riferimento più evidente, per lunghi tratti, sono i prog-folkers Tudor Lodge; un pezzo triste e solenne in cui classicità e feeling sono capaci di incrinare il cuore. Che dire ancora? Il salto indietro nel tempo è notevole, di conseguenza, proprio come accadeva alcuni decenni fa, pare proprio che occorra fermarsi un attimo, rimandare qualsiasi impegno imminente e sedersi con calma ad ascoltare questa sorta di quadro sonoro dai colori così retrò. Si potrebbe rinfacciare alla band di aver giocato facile, scegliendo di cantare in inglese e non in lingua madre; ma qui l’intento era quello di ricreare un periodo storico, quindi la nazionalità dei protagonisti non conta. Però, dopo aver sentito bene questo esordio, pur sapendo di rischiare d’apparire campanilisti, si è molto orgogliosi di dire che gli Old Rock City Orchestra sono al cento per cento un patrimonio tutto italiano.
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Michele Merenda
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