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Ripensandoci, potrebbe sembrare di essere finiti in un episodio alla “Cold Case”, se non addirittura in uno di “Ai confini della realtà”. Insomma, è facile cadere nel romanzato quando si tenta di dare un seguito ad una storia vecchia di quarant’anni e ripescata dal passato. La storia è quella contenuta in un disco che per molti appassionati è stato uno dei simboli del progressive, uno dei vessilli di una stagione che molti hanno voluto dimenticare e che pochi hanno seguito in quella sua evoluzione che ci ha portati fino ad oggi. “Thick as a brick”, inutile descriverlo ora, è stato un disco unico per tante cose, ma al di là dell’aspetto musicale intrinseco, quello che rimane sempre impresso nella memoria sono le pagine del quotidiano immaginario St. Cleve Chronicle, che lo avvolgeva a mo’ di copertina. Quel quotidiano, occorre ammetterlo, da adolescenti era l’unico che abbiamo tenuto in mano, reputando quelli “ufficiali” un po’ troppo da adulti. Invece, pur quindicenni (o giù di lì) quelle pagine, scritte in una lingua allora semisconosciuta, ci dava quella soddisfazione legata al prodotto musicale che conteneva e rappresentava. Sulla prima pagine di quel quotidiano si leggeva la notizia di un ragazzino prodigio, tale Gerald Bostock, soprannominato “Little Milton”, squalificato da un concorso che avrebbe vinto con un poema intitolato, appunto, “Thick as a brick”. Era il 1972 e, dopo quell’episodio, l’universo Jethro Tull si spinse verso tutt’altre direzioni, alcune buone, alcune davvero meno buone, ma dimenticando di aver lasciato una porta spalancata su una storia che aveva intrigato e interessato molti, molti appassionati. Passano gli anni e veniamo quasi ai giorni nostri, qualcuno propose a Mr. Anderson di dare un seguito a quella storia, ma non se ne fece nulla. Nel 2010, il nostro pifferaio magico ebbe un certo riavvicinamento ai temi del progressive (flussi e riflussi) e, a ruota, arrivò un’altra proposta. Fu niente meno che Derek Shulman dei Gentle Giant, in veste di discografico, a rimettere in gioco l’idea e, questa volta, Anderson abboccò all’amo e iniziò a lavorare sulla riapertura di questo cold case. In breve, con l’ausilio di Florian Opahle (chitarra) e di John O’Hara (tastiere) furono fissate parti musicali, testi e melodie su un software in formato digitale. Poi partirono i vari tour dei Jethro e di Anderson solo e il nuovo prodotto rimase in decantazione qualche mese. Alla ripresa, il gruppo di lavoro si dedicò al completamento degli arrangiamenti e, parole dello stesso Anderson, fu come ritrovare dei vecchi amici su Facebook. Queste parole, trovo siano davvero azzeccate: un po’ come se certi riff, certe atmosfere, certi sviluppi ritmici e certi modi di “costruire” testi + musica siano “old friends” rincontrati con piacere dopo molto tempo, bellissima metafora davvero. Tralasciando ulteriori particolari, gira e rigira la frittata ed ecco che ci ritroviamo per le mani il dischetto d’alluminio. Come prevedibile, nessuno, eccetto ovviamente Ian Anderson, rimane della vecchia squadra e vediamo quindi una band totalmente rinnovata, grossomodo la stessa che lo accompagna nelle ultime tournee. Quindi oltre al tastierista e il chitarrista che abbiamo segnato sopra manca solo la sezione ritmica con David Goodier al basso e Scott Hammond alla batteria. Il concept ruota attorno a questo caso irrisolto e pone alcune ipotesi che vedono protagonista il caro Gerald e il suo attuale essere uomo. Così, i diciassette brani che formano il disco, chiedono di essere suddivisi in vari temi, in base alle varie possibilità che l’autore ha intravisto. Così troviamo ipotetici Gerald schierarsi ora come banchiere, ora come accattone, forse come prete, forse come soldato, forse chissà come “Avrebbe potuto essere”. Ma, ovviamente, quel che conta di più è la musica e in questo cosa troviamo? Il tutto mi pare paragonabile ad una sorta di gioco di scatolette di carillon, messe ai bordi di una stanza. Una stanza antica, forse dagli odori un po’ ammuffiti, dalle tappezzerie di stoffa un po’ scollate, ma che certamente avevano un senso molto elevato, un tempo. Bimbe in abiti colorati, arricchiti di nastrini e tulle ruotano in un girotondo e, mano a mano che passano di fronte ai carillon, ecco aprirsene qualcuno a caso, all’improvviso, per far uscire quel pezzetto di melodia, quel riff, quelle poche note che ci riportano indietro, nel tempo in cui quella stanza era viva e pulsante. L’opera, dal punto di vista musicale, è tutto un giocare con la memoria. Un esercizio forse spontaneo, forse un po’ artefatto, forse artigianalmente studiato per far aprire e richiudere in continuazione, quelle scatolette di ricordi. Esemplari sono alcuni brani, che sintetizzano in maniera quasi brutale questo senso di raccolta sono ad esempio: “From a pebble thrown”, “Pebbles instrumental” e, ovviamente, “Old school song” anche con i suoi accenni decisamente rockeggianti. Non mancano i soliti sbuffi andersoniani di folk miscelato all’hard, vedi ad esempio “Upper sixth loan shark” e “Banker bets, banker wins”. Poi abbiamo anche richiami diversi dall’autocompiacimento e allora ecco spuntare una particolare “Swing it far” dove sentiamo echi di PFM e Acqua Fragile, inframmezzati da spunti folk, a onor del vero davvero piacevoli. E ancora “Give till it hurts” dove, nel suo inizio, si esplorarono territori più tipicamente folk, che non possono non risvegliare il vecchio amico “John Barleycorn”. Tra le cose particolari dobbiamo anche annoverare “Adrift and dumfounded”, dove tra i temi hard-tulliani fanno capolino tocchi di fusion jazzata. Poi la storia è sempre quella: il tema principale sparisce, ricompare, si stempera e torna ancora diverso, ma sempre lui. Tirare le somme di un lavoro come questo è difficile, soprattutto se si ritiene, giustamente, di dover essere obiettivi e poter dare un consiglio ponderato ed equilibrato. Qui si tratta di una proposta particolare, che può essere amata tout-court o altrettanto odiata. Forse molti la attendevano, magari non consci del pericolo che c’è dietro ad operazioni siffatte. È che poi uno potrebbe anche immaginarsi di desiderare un seguito ad una storia di battaglie di clan nei pressi della Epping Forest o una sorta di opera in quattro suite a tema “Who closed the gate on the delirium edge?” o, lasciatemi disperare, un “Dark side of the moon 2 – The Lunatic was on the grass”.
Ma, alla conclusione di tutto, il disco l’ho ascoltato piacevolmente la prima volta, con un sorriso la seconda e la terza. Nella quarta ho scoperto cose intriganti e iniziavo ad esternare un certo interesse, ma poi, via, via sempre meno passione. E’ certo un disco prog, ma non c’è meraviglia, tutto è leggero, tanto da sapere di mestiere, di impostato per suonare in un certo modo, lasciando indietro ogni forma di spontaneità. E’ un po’ come andare per funghi e invece di trovarli uno qui e uno là, nati spontaneamente, scoperti a fatica sotto le foglie, in mezzo a frasche odorose, tra ciuffi d’erba appassita, trovarli uno in fila all’altro, messi a scacchiera come quei boschi cedui che vediamo vicino a certe autostrade. Tutto è molto artificiale: in parallelo, è il vecchio quotidiano cartaceo, con il suo odore di rotative, il suo sporcare di piombo, il suo sfrigolare di pagina in pagina, che dopo 40 anni diventa quotidiano on-line, pratico, ma freddo, da leggere così, come una svista temporanea. E se per 40 anni, seppur saltuariamente, abbiamo tirato fuori quel vinile dalla carta di giornale e lo abbiamo fatto girare con tanto, tanto gusto, cosa accadrà a questo TAAB2 tra soli 4 anni? Potrei romanticamente pensare ad un suo uso a completamento del precedente, ma, più realisticamente, immagino sarà ridotto ad un insieme di bit in qualche impolverato scaffale, se non addirittura in un backup in qualche hard disk ficcato in un armadio per chissà quale nipote a cui raccontare che tanto, tanto tempo fa, un menestrello…
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