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PAATOS |
Breathing |
GlassVille Records |
2011 |
SVE |
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Dopo l’esperienza di ascolto di “Silence of Another Kind”, terzo capitolo in studio del gruppo svedese uscito nel 2006, credevo di aver archiviato definitivamente il caso Paatos, considerando anche la successiva uscita di scena dell’ex Landberk Stefan Dimle. Se si parte da un livello medio che lascia intravedere diverse promesse si può sempre attendere con speranza ma se agli esordi c’è un disco come “Timeloss” è difficile dare fiducia a una band che ha disegnato la sua rotta in progressiva discesa. Ma tutti i nodi prima o poi vengono al pettine ed ecco che, seppure con ritardo, alla fine mi ritrovo ad ascoltare questo quarto album in studio. Registriamo, oltre alla defezione di Stefan anche quella del tastierista Johan Wallen, alle cui dita era affidato l’elegante Mellotron, l’organo Hammond e vari altri synth, in questa contratta formazione a quattro, con Ulf Rockis Ivarsson al basso, al posto di Stefan, e le tastiere affidate in cogestione al batterista Ricard Nettermalm e al chitarrista Peter Nylander (che suona anche trombone e flauto bansuri). Rimane al suo posto la voce di Petronella Nettermalm, che è a questo punto la chiave di volta dell’intero album, e si segnala anche la presenza dell’ospite Svante Henryson al violoncello. Rispetto all’esordio, che nel bene e nel male rimane lì come pietra di paragone, permane una certa semplificazione degli spartiti con la diluizione delle trame psichedeliche, degli elementi jazz e un alleggerimento estremo degli inserti tastieristici che ci sono, ma vengono utilizzati, come del resto il violoncello, soltanto per creare atmosfera e delicate colorazioni musicali che mettano in risalto la voce di Petronella. Tutto questo alleggerimento, che non è una semplice conferma della svolta pop del gruppo avvenuta in modo conclamato con “Silence”, si traduce comunque in una formula ariosa ed elegante in cui si rinuncia quasi del tutto ad inutili appesantimenti chitarristici, con qualche piccola eccezione che può essere la traccia di apertura “Gone”, e a goticismi un po’ banali e scontati. La scelta prevalente è quella di puntare su canzoni soffuse, dalle sfumature post rock e dai tenui tratteggi Vandergraffiani, e pensiamo a “Fading Out” con le sue progressioni oscure, o alla morbida “In that Room” che ricorda molto i Landberk di Indian Summer. Le cose si fanno più interessanti quando la voce di Petronella osa un po’ di più, ricordando in questo caso quella di Björk, e il drumming di Ricard, comunque sempre elegante, si fa più jazzy e frammentato, come in “No More Rollercoaster”, peccato solo che si sia fatta così tanta economia col Mellotron perché in casi come questo, inserito in modo opportuno, avrebbe aggiunto sicuramente qualcosa in più. Ma non vorrei lamentarmi eccessivamente riguardo a questo brano che in fin dei conti è uno di quelli con più carattere. Molta grinta il gruppo la sfodera anche con “Over & Out” che finalmente porta un po’ di movimento. Non a caso credo che queste tracce siano state collocate specularmente nella edizione in vinile a chiudere le due facciate. Molto bella è anche la title track, pur nella sua veste decisamente poppish, particolarmente oscura e dominata da un cantato decisamente ipnotico e seducente. Stesso discorso per “Precious”, anch’essa abbastanza commerciale all’apparenza ma notevole proprio per il cantato vellutato. Ha un suo fascino anche “Smärtan” in cui si gioca con sonorità minimali e atmosfere dilatate e vagamente post rock, col violoncello sullo sfondo e bei riverberi. Per dovere di cronaca va specificato che la versione in CD, rispetto a quella in vinile, contiene due brevissimi intermezzi in più, assolutamente dispensabili, e presenta un diverso ordine nella proposta dei pezzi. Posso dire, facendo un bilancio globale, che questo album non risolleva in modo decisivo le credenziali del gruppo, se ovviamente ci teniamo nelle orecchie l’esordio ma, in termini assoluti, risulta un’opera decisamente piacevole ed elegante, che fa leva su sensazioni felpate, particolari leggeri e soprattutto sulla semplicità. Non troviamo arrangiamenti calcati, inutili appesantimenti, scelte esagerate ma sensazioni morbide e perfino ammalianti in certe occasioni, in una veste a volte soft jazz ma molto più spesso poppish e dai riflessi oscuri. Tutto questo ovviamente fornisce motivazioni sufficienti per ripetere l’ascolto più volte e direi che non è poco.
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Jessica Attene
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