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OBLIVION SUN The high places Prophase Music/Crafty Hands Music 2013 USA

Secondo album a nome Oblivion Sun per Stanley Whitaker (chitarra e parti vocali) e Frank Wyatt (tastiere e fiati), noti agli appassionati prog per i loro trascorsi con gli Happy the Man. Coadiuvati da David Hughes (basso e voce) e da Bill Brasso (batteria e percussioni), i due danno vita ad un altro bel lavoro, intenso, pieno di spunti intriganti e soluzioni mai banali, che in larga parte discendono dalle idee esposte negli anni ’70 dalla band di “Crafty hands”. Se qualcuno ancora pensa che gli Happy the Man siano stati fondamentalmente una creatura del talentuoso tastierista Kit Watkins e non gli è bastata la prova della reunion “The muse awakens”, dovrebbe ascoltare attentamente i due lavori degli Oblivion Sun (oltre all’album a nome Pedal Giant Animals) per capire l’importanza, la bravura e la creatività di Wyatt e Whitaker. Già una copertina molto bella, un po’ sullo stile fantasy, dà intriganti premesse, ma ci pensa l’incipit “Deckard” a far partire subito il disco alla grande con un bellissimo brano strumentale in stile Happy the Man, attraverso quel jazz-rock esuberante e pieno di cambi di tempo e di atmosfera che sa essere allo stesso tempo articolato e fruibile, guardando verso Canterbury, ma senza perdere di vista la melodia. “March of the mushroom men” è un breve brano che parte con una marcia quasi zappiana per poi orientarsi verso un rock chitarristico di qualità, con spunti vagamente à la Camel. Il primo brano cantato è “Everything”, sorta di ballata semiacustica e malinconica, mentre più dura e vicina ad un hard rock di classe risulta “Dead sea squirrels”, minacciosa (ma non troppo), con una parte centrale orientata verso un prog sinfonico guidato dalle tastiere. Il pezzo forte del cd è la suite eponima, oltre ventidue minuti suddivisi in 6 tracce. C’è tutto ciò che un appassionato di prog può desiderare: variazioni ritmiche e di atmosfera, melodie ariose, lunghi momenti strumentali in cui si avvertono intrecci elettroacustici e solos infuocati e affascinanti, persino passaggi floydiani e ammiccamenti ai Genesis periodo 1976-1977… Romanticismo e jazz-rock vanno di pari passo e regalano magiche vibrazioni, mostrando l’inventiva fuori dal comune di questi statunitensi ancora vivacissimi e pronti ad un sound brioso in cui tecnica e feeling si sposano alla perfezione. Brillante e coinvolgente, con una produzione cristallina, “The high places” non farà fatica ad incontrare i favori dell’ascoltatore; non siamo certo ai livelli di “Crafty hands”, ma non si poteva pretendere tanto. Consigliatissimo!



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Peppe Di Spirito

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