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DELUGE GRANDER Heliotians Emkog Records 2014 USA

Dan Britton, tastierista e mente di questo progetto, dice che c’è il rischio che di questo album si finisca per parlare solo della confezione… ed il rischio c’è davvero, non certo per colpa della musica che, per fortuna, si rivela all’altezza delle aspettative, ma perché effettivamente l’edizione è davvero maestosa. Non parlerò soltanto di questa ma permettetemi di iniziare proprio da qui. Il terzo album dei Deluge Grander, capostipite di un piano discografico che prevede l’uscita, in dieci anni, di altri sei album (di cui tre in edizione limitata, due come uscita ordinaria e un altro come “wide release”), è disponibile in sole 205 copie numerate, ognuna delle quali comprende un vinile e un CD, racchiusi in una copertina apribile interamente dipinta a mano, con i testi rigorosamente scritti anch’essi a mano, e gli autografi di tutti i musicisti. Una fodera trasparente in polietilene garantirà la conservazione del dipinto. Particolare non di secondo piano, la maggior parte della musica è stata registrata analogicamente e suonata con strumenti analogici, fatto questo che rende il vinile non un mero oggetto di culto per feticisti ma il supporto ideale per gustarsi fino a fondo questa nuova uscita. Non sono previste edizioni in altri formati anche se l’album è disponibile anche in digitale da acquistare e scaricare online, quindi se amate un supporto fisico dovrete puntare su questo e sbrigarvi anche.
Nelle liriche si parla del nostro pianeta come se fosse una specie di un guscio cavo sferico, con un piccolo sole che fluttua all’interno del suo nucleo e le terre con gli oceani collocate sull’altro versante, a una ventina di miglia dalla crosta profonda. La parte profonda della Terra può essere raggiunta scavando, “Ulterior”, o volando attraverso piccoli fori che si trovano ai due poli, “Reverse Solarity”. La bellissima copertina rappresenta proprio il sole visto dalla crosta interna. I pezzi sono solo tre e variano dai 5 minuti circa di “Saruned”, il più corto, ai 21 e mezzo della conclusiva “Reverse Solarity”, con la traccia di apertura, “Ulterior”, che raggiunge la lunghezza intermedia di 14 minuti.
Musicalmente ricordiamo che i Deluge Grander rappresentano l’anima più sinfonica del contorto e a dir poco fantasioso Dan Britton ed è forse per questo che si abbonda di bellissimi suoni tastieristici dalle sfumature vintage. Scontato forse ricorrere ad un autentico Mellotron, che si trova in buona compagnia assieme al Fender Rhodes, e ai synth di manifattura americana Multivox e Univox, ma è proprio questo strumento a caratterizzare molto questo album e persino le altre tastiere ne ricordano in parte i registri. Ad esaltare la componente classicheggiante ed orchestrale troviamo poi il violoncello, nelle mani di Natalie Spehar, ed il flauto, suonato invece dal bassista Christopher West. Un altro elemento di gran pregio è secondo me il drumming di Patrick Gaffney (l’altro musicista cardine dei Deluge Grander, assieme a Dan), agile, e mai prepotente, abbastanza flessibile da adattarsi ad ogni cambio di situazione, penetrando nel cuore di ogni disegno melodico, esaltandone le forme, senza schiacciarle e travolgerle. Come al solito la musica è densamente stratificata e stuzzicante da scomporre e ricomporre nella propria mente ascolto dopo ascolto ma, a differenza di altre creature Brittoniane, i disegni melodici, seppure asimmetrici, sono chiaramente intellegibili, le atmosfere sono avvolgenti e gli elementi sinfonici sono sì ricchi ma non invadenti o inutilmente sgargianti. Il mood è forse un po’ sinistro e misterioso in “Ulterior”, tanto che, specie per quel che riguarda il cantato, a cura di Cliff Phelps e di Megan Wheatley, mi si sono affacciati alla mente gli svizzeri Island, mentre più distesa appare la lunghissima traccia di chiusura, più solare e letteralmente inondata dai bellissimi suoni del Mellotron.
Ovunque in questo album le innumerevoli influenze provenienti dai classici inglesi, Genesis, King Crimson e Yes primi fra tutti, vengono scomposte e incastrate in uno stile eclettico e personale che si colloca perfettamente nel contesto dell’underground prog statunitense degli anni Settanta, complici anche sonorità vintage piuttosto opache che fanno addirittura pensare ad un prodotto dell’epoca sfuggito per puro miracolo alla vorace rete dei collezionisti. A corollario di quanto già detto mi sento di affermare che questo disco supera in fascino i due precedenti che già erano un bel sentire, sono curiosissima quindi di scoprire cosa sarà in grado di inventarsi Dan Britton che mi sembra abbia idee molto chiare e tantissima voglia di fare.


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Jessica Attene

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