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Curioso, il destino di alcune band. Prendiamo il caso degli Abel Ganz: durante gli anni '80 parevano condividere la sorte di IQ, Pendragon, Pallas e delle altre band del revival progressivo inglese, ovvero un middleground a metà strada tra la celebrità dei Marillion e la sconfitta di chi ha visto il proprio nome confinato e relegato all'illustrazione fotocopiata di qualche musicassetta casereccia. E dire che la band scozzese, a suo tempo, ebbe qualcosa in più degli warholiani quindici minuti di fama: con caparbietà, si ritagliò uno spazio sui palchi di locali come il Marquee di Londra o la Playhouse di Edimburgo e si assicurò il seguito di un fedele seguito di appassionati, ma non trovò purtroppo il sostegno discografico che ebbero le band sovracitate (che finirono per registrare per sussidiarie di EMI e Vertigo), lasciando come testimonianza del suo passaggio tre buoni album autoprodotti (in ogni senso) su nastro. Lo stesso passaggio del quotato vocalist Alan Reed verso i “rivali” Pallas ebbe probabilmente un effetto sull'incompiutezza di questa prima fase di carriera. Fast forward: dopo un quarto disco datato 1994 quasi sconfessato dall'unico membro fondatore presente, Hugh Carter, si persero le tracce della band, e tutti pensammo ad una resa definitiva, ma il colpo di coda arrivò nel 2008, con quello che ritengo essere album pregevole, quello “Shooting Albatross” che poteva vantare un cameo vocale del figliol prodigo Reed e, tra i membri storici, Hew Montgomery alle tastiere, il già citato Carter ormai passato dal basso alla chitarra acustica e al flauto e il batterista/manager Denis Smith, vero motore della reunion. L'album vedeva l'introduzione di marcate influenze folk celtiche, che finirono per impreziosire e caratterizzare non poco la mistura di new-prog alla base della proposta, già sorpassata in complessità grazie a lunghi brani dall'articolazione e dallo sviluppo non banali. Siamo finalmente al 2014, e gli anni trascorsi hanno visto la defezione di Montgomery, impegnato nella produzione dei conterranei Comedy of Errors, e di Carter (impegnato nella direzione di una scuola di musica per disabili), lasciando di fatto i superstiti nelle sapienti mani di Smith. E' evidente sin dalle prime note dell'album, come Mick MacFarlane (voce, chitarra), Davie Mitchell (chitarra), Stephen Donnelly (basso) e Jack Webb (tastiere) abbiano fatto tesoro dell'esperienza a contatto con i veterani (che, per fugare ogni equivoco, hanno dato la propria benedizione al progetto), finendo con il produrre quello che potrebbe essere definito a buon ragione il miglior disco degli Abel Ganz, pur senza alcun membro fondatore presente. Si tratta di un album dagli arrangiamenti molto ricchi e vari, con escursioni in generi anche molto eterogenei, in cui gli strumenti acustici (piano, chitarre, archi e un assortimento di fiati – flauto, whistle, oboe, tromba, corno, trombone, tuba, etc.) e le armonie vocali giocano un ruolo decisivo, anche se non si deve inquadrare l'opera in un contesto esclusivamente cameristico, potendo vantare frequenti passaggi arrangiati in una più classica chiave rock. Tutti gli stilemi citati trovano spazio nel brano di durata più lunga, i venticinque minuti della suite in cinque movimenti “Obsolescence”: l'apertura con “Sunrise” è di stampo quasi cantautoriale, e funge da preludio ad “Evening”, in cui sono il piano, l'organo e il synth di Jack Webb a dominare, con la pedal steel guitar di Iain Sloan e le percussioni di Ed Higgins a fare da contraltare, mentre “Close your eyes” è notevolmente più sinistra, con la voce di MacFarlane a farsi straniata e il basso Rickenbacker di Donnelly a tambureggiare con le sue note gravi, fino a lasciare la scena al corposo synth di Hew Montgomery, qui in veste di gradito ospite; si prosegue in territori eminentemente progressive e genesisiani con le chitarre arpeggiate e il flauto di “The dream”, che ricreano le remote e pastorali atmosfere di “Trespass”, conducendo ad un finale sinfonico di cui Wakeman sarebbe geloso, con il solenne organo a canne (suonato da Stephen Lightbody) e le campane tubolari; l'ultimo movimento “Dawn” è un più sobrio ma delizioso duetto di chitarre elettriche dal sapore dei migliori Camel o Focus.
Non fornirò in questa sede una descrizione dettagliata brano per brano dell'altrettanto valida seconda metà di quest'album (dalla durata non indifferente di 70 minuti, per una volta tutti giustificati), ma vi troviamo episodi per chitarra acustica (“Spring”, “A portion of noodles”), i romantici brani per brass band “The Drowning” (appena sussurrata da MacFarlane, su una base morbida e notturna) e “Recuerdos” (che può vantare una fanfara quasi in stile Mariachi), la new age celtica di “Heartland”, lo strumentale “After the rain” (con un fretless bass e un piano elettrico in odore di fusion), il sentito inno folk con strofa in gaelico di “Thank you” e l'estesa, multiforme e sorprendentemente jazzata “Unconditional”. Non ho dubbi che questo elegante disco eponimo finirà nella mia personale playlist tra le cose migliori pubblicate nell'anno in corso, ed è sempre un piacere poterlo affermare quando si ha a che fare con artisti che portano avanti ostinatamente un “marchio” da trent'anni; in questo caso, considerando anche il ricambio generazionale nella line-up, è quasi un piccolo miracolo.
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