|
Torna dopo un anno la space-rock band di Astrakhan, con quello che è di fatto il suo settimo album (senza contare i vari live ed i lavori composti prima del debutto ufficiale, rimasti tutt’oggi inediti). Un lavoro che forse non ha la medesima profondità del suo predecessore e che torna nuovamente sui territori dichiaratamente Ozric Tentacles, non aggiungendo quindi nulla di nuovo, ma che comunque si conferma abbondantemente sopra la media del settore. Il percorso che aveva portato in precedenza ad uno stile che guardasse alle immagini oniriche, ha comunque inciso nell’approccio del gruppo russo, che oggi riesce ad abbinare un certa capacità evocativa alle lunghissime partiture musicali (si parla di oltre 70 minuti con pezzi che in media oscillano attorno agli otto di durata). E poi, l’indagine storica – che soprattutto negli ultimi tempi ha caratterizzato l’ensemble dell’Est – porta a creare un nuovo concept album strumentale che stavolta guarda all’Etiopia. Il titolo, infatti, fa riferimento all'appellativo concesso al sosia dell'Imperatore, che lo accompagnava in battaglia. Una carica detenuta da due consiglieri fidati, che procedevano su entrambi i lati del sovrano anche durante le processioni pubbliche, vestiti altrettanto o se possibile meglio dell'Imperatore stesso, al fine di distrarre eventuali assassini. Un sound corposo, grazie all’impiego consistente delle percussioni di Alexander Timakov, il violino di Vitaly Borodin e gli inserimenti del sassofonista Pavel Alekseev, che si accompagnano ai soliti Ivan e Arkady Fedotov (batteria e basso), Alexander Kuzovlev (chitarra) e Alexey Klabukov (tastiere , sintetizzatori, noise box). I sedici minuti di “The course of Abagaz” – governatore militare di una zona abbastanza ampia, designato direttamente dall’Imperatore – partono con quella che è la matrice distintiva dei Vespero: uno space sound misterioso, che va pian piano sviluppandosi, come se si partisse da un’intuizione che si va gradualmente strutturando. Un po’ tutti gli addetti al settore, in questo caso specifico hanno descritto una ritmica che ricorda molto quella dei Santana; similitudine decisamente oggettiva, con la combinazione batteria-percussioni pressoché incessante, proseguendo con il sax che vorrebbe rimandare a sonorità esotiche . Segue una lunga stasi dettata dai sintetizzatori, a tratti anche inquietante, con gli ultimi due minuti nuovamente sostenuti, tra assoli di tastiera e sax. Più che all’Etiopia, in conclusione, qua sembra che si guardi ad una realtà latino-americana psichedelica proiettata in alto, verso lo spazio. “Ras Dashen” (in amarico: "Capo delle Guardie") è ancora più cupa e ambigua, con le percussioni immerse tra effetti vari, inserimenti solenni di violino e ghirigori di chitarra, a cui si accompagna di tanto in tanto il respiro del sax, prima che alla fine del quarto minuto il pezzo prenda vita con un classico stacco repentino tipico degli Ozric e che parta – sorretto da un violino arabesco – al moderato galoppo, a cui segue la consueta sfuriata ipnotica delle sei corde. Una composizione, tra l’altro, che guarda con il suo titolo alla montagna più alta di Etiopia, la quarta nel continente africano. “Oromoo’s Flashing Eyes” – Oromo, antico ceppo etnico che si è distinto anche per le proteste pubbliche di alcuni atleti contro i soprusi sociali subiti – presenta ancora percussioni in un contesto da trip. Ritmo che aumenta in maniera costante, vibrante; basso e chitarra diventano sempre più prepotenti, fino ad arrivare all’assolo energico del basso a cui segue quello di violino, che ricorda un po’ i Kansas più evocativi, a cui si sovrappone poi la chitarra su degli eccellenti controtempi ritmici. “Abyssinian Ground” è più rockeggiante, tanto da somigliare inizialmente agli Arab’s in Aspic, con un lavoro instancabile ad opera dei due fratelli Fedotov e di Timakov. Botta e risposta tra chitarra ed effetti tastieristici, senza dimenticare mai il sax, sempre in agguato. E a proposito del sax, in “Isidore’s Prophet” lo strumento inizia a narrare la storia (o la profezia), prima che parta il consueto viaggio cosmico sulle note di un violino stridente, ficcante, ed una ritmica che ricorda abbastanza “City of Tiny Lights” di Frank Zappa. Dopo una breve pausa, il sassofono torna spavaldamente in campo. “Follow the Fitawrari” – comandante dell’avanguardia militare etiopica – è forse il brano più intenso, dalle battute inziali fino alla fine. Composizione compatta, in cui la ritmica è incessante, assolutamente energica, con la fase solista delle tastiere a cui si contrappone la chitarra, che parte come se suonasse un assolo quasi jazzato, aumentando sempre di più il livello della distorsione, completando così la metamorfosi e divenendo la classica partitura solista tipica dei Vespero. “The Emperor’s Second Self” chiude l’album, col protagonista che apprende di essere davvero un Imperatore etiopico e non una mera controfigura esposta agli attentati. Atmosfera lenta, quasi circospetta, con il sax continuamente in secondo piano e stridori di chitarra. Una buona atmosfera, in cui il Lique mekwas prende definitivamente coscienza di sé, anche se undici minuti e mezzo sono francamente troppi, in questo caso. Conclusione? Solito bell’album dei Vespero, sempre più professionale, frutto ormai di tanta esperienza. Gli onnipresenti Ozric Tentacles sono stati citati e “stra-citati”, così come non si possono dimenticare i Gong che davano maggior spazio all’estro di Steve Hillage, a sua volta punto di riferimento per gli Ozric stessi. Nonostante ciò, la settima fatica dei russi suona davvero molto bene. Ma si può comunque comprendere chi accoglierà questa uscita con moderazione, soprattutto se si ricercano costantemente delle novità.
|