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Seconda parte del concept “Once we were” ideato da Steve Hughes, cantante e polistrumentista già apprezzato nelle esperienze con Big Big Train, Kino e Enid. Anche questa nuova prova, pur non disdegnando soluzioni che vanno verso altri lidi, è prevalentemente indirizzata verso il rock sinfonico; d’altronde, col suo curriculum, è stato sempre questo il campo in cui si è impegnato. Steve è assoluto protagonista, districandosi molto bene tra batteria, percussioni, tastiere, basso, chitarre e parti vocali. A supportarlo, giusto un contenuto numero di ospiti: le cantanti Angie Hughes e Katja Piel, il sassofonista Richie Phillips, il violinista Maciej Zolnowski e i chitarristi Keith Wonder e Dec Burke. Ma andiamo ad analizzare un po’ i contenuti del disco. L’inizio è affidato a “The game”, che è un brano pregno di romanticismo, caratterizzato da un new-prog gustoso, dalle ariose melodie ed in cui compare anche il sax. Apprezzabile da subito la performance vocale di Hughes, dotato di un timbro caldo e piacevole all’ascolto. Più curioso il seguente brano “Life’s a glitch”, in cui i suoni sembrano portare agli anni ’80 portando a risultati un po’ altalenanti. Va molto meglio con “Propaganda’s part two”: anche se non rinuncia a timbri un po’ sintetici, Hughes qui propone un bozzetto strumentale e dall’atmosfera ariosa che sembra un po’ a cavallo tra IQ e Pink Floyd. Siamo arrivati alla parte centrale di “Once we were – Part two” e qui troviamo un paio di pezzi non proprio felici. “They promise everything”, dopo una partenza delicata, diventa poi carico di effetti elettronici che sembrano abbastanza indigesti. A seguire “There’s still hope” ci porta in territori synth-pop, affrontati anche benino, ma che si dilungano troppo e che sembrano comunque distogliere le attenzioni dai momenti più incisivi dell’album. Tempi spediti per “She’s”, che offre una visione moderna di progressive rock, con risultati altalenanti (bene certi intrecci strumentali e i break melodici, meno l’ossessività ritmica). Si cambia totalmente registro con “Spider on the ceiling”, che, con i suoi tre minuti, le melodie vagamente beatlesiane ed un intermezzo molto vivace ritmicamente, potrebbe essere un potenziale singolo. Il momento clou è rappresentato dagli oltre dodici minuti di “Clouds”. Inizio classicheggiante con le tastiere, poi cresce l’intensità e si va sempre più verso un rock sinfonico dalle reminiscenze Yes, con i classici intarsi di chitarra e tastiere su tempi composti e in continua variazione. Splendido il passaggio in cui interviene anche il violino, che arricchisce così il quadro timbrico. In alcuni frangenti, inoltre, si denota qualche tocco leggermente fusion che non guasta affatto. Solo qualche altro lieve inserimento elettronico verso la fine non convince del tutto, ma non esitiamo a dire che con questa composizione Hughes ha dato il meglio di sé. Chiude “One sweet world”, brano di cinque minuti e mezzo in cui si recupera un amabile romanticismo. Non è semplice dare un giudizio globale a questo disco; troppo altalenante da un punto di vista qualitativo e troppo eterogeneo con la conseguenza che alle volte non si capisce dove voglia andare a parare Hughes. Così sembra un passo indietro rispetto alla prima parte. I momenti più convincenti sono proprio quelli in cui si indirizza sul rock sinfonico, con tutte le caratteristiche del caso, sia quando si lega a classici del passato, sia quando presenta un orientamento non distante da quello dei Glass Hammer. Molto più confusionarie, invece, quelle situazioni nelle quali il musicista prova a mischiare le carte in tavola. Siamo ben lontani da possibili lodi, anche se ci sono degli spunti davvero notevoli e resta l’espressione di una certa personalità, che potrebbe portare il nostro ad avere una voce in capitolo interessante per quanto riguarda il rock sinfonico degli anni ’10.
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