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Con i suoi trascorsi da cantante di Pallas e Abel Ganz, Alan Reed rappresenta un nome importante per i nostalgici del new-prog degli anni ’80. “Honey on the razors edge” è la sua seconda prova solista. Si tratta di un lavoro abbastanza eterogeneo, nel quale emergono inevitabilmente le esperienze che lo hanno formato, ma allo stesso tempo si fanno strada anche soluzioni inaspettate. Pur essendo il protagonista principale, impegnandosi non solo alla voce, ma anche alle chitarre, al basso, ai bass pedals e alla programmazione della batteria elettronica, Reed si è contornato comunque di musicisti ben noti ai cultori. Il nome di spicco è sicuramente quello di Steve Hackett, ma troviamo anche le cantanti Christina Booth (dei Magenta), Monique Van der Kolk (Harvest) e Laetitia Chaudemanche (Weend’o), nonché i vari Scott Higham (Pendragon) alla batteria, Mike Stobbie (Pallas) alle tastiere, Claude Leonetti (Lazuli) alla leode, curioso strumento elettronico e Jeff Green alla chitarra. Certo, i ritmi campionati con cui parte “My sunlit room”, che apre il disco, non sono la presentazione migliore, anche se il brano poi si risolleva un po’ nel finale. Va decisamente meglio con la breve “Razor”, una sorta di hard rock stravagante che si conclude con un curioso assolo all’armonica di Steve Hackett. E’ con “Cross my palm” che comincia a intravedersi quel new-prog di cui Reed è stato protagonista negli eighties, grazie a melodie ariose e ad un andamento abbastanza maestoso, soprattutto per merito delle tastiere. A seguire è il turno del momento “soft”, con la delicata ballad “Leaving”, ricca di suggestioni à la “Lucky man” e con il soave accompagnamento di cori femminili. I quasi nove minuti di “The other side of morning” sono probabilmente quelli che più toccheranno il cuore degli irriducibili amanti del new-prog. Mantenendo sempre una certa attenzione alle melodie, qui Reed e compagni si impegnano nei classici cambi di tempo e di atmosfera e in intriganti momenti strumentali. Nulla che faccia proprio gridare al miracolo, ma si tratta di una composizione ben costruita e piacevole all’ascolto. Ritmi spediti caratterizzano invece “The covenanter”, brano più diretto e abbastanza trascinante, una sorta di “Incommunicado”, tanto per dare un termine di paragone. Ci si avvia verso la conclusione e, dopo i sei minuti romantici e zuccherosi scanditi da ritmi elettronici blandi di “Used to be someone”, ecco l’ultima traccia “Northern light”, che recupera con buoni risultati una certa vena celtica inizialmente, ma che va a concludersi con un crescendo emozionante e sinfonico, con le tastiere protagoniste. Concludendo, possiamo rimarcare la buonissima prova vocale di Reed, ma anche la sua capacità di concepire un disco ben più che dignitoso, che magari non lascerà un marchio epocale e che si concede qualche piccolo passo falso, ma che sicuramente può offrire quarantadue minuti gradevoli a quegli ascoltatori nati e cresciuti con il sound del new-prog.
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