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THE WATCH |
Seven |
Pick Up Records |
2017 |
ITA |
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Ormai da qualche anno The Watch si ricorda di non essere solo una cover band dei Genesis, ormai di fama internazionale peraltro, tanto da rivaleggiare coi canadesi The Musical Box, solo quando, periodicamente, decide di pubblicare un nuovo album. E ovviamente, ad ogni nuovo album, sopraggiungono i soliti accostamenti con i Genesis. D’altra parte la band ha sempre rincorso ed assecondato i richiami alla musica dei maestri, senza farne il minimo mistero, a partire dalla voce di Simone Rossetti, da tempo l’unica presenza costante del gruppo e vero proprietario del marchio, così simile a quella di Peter Gabriel, sia per doti naturali che per ricerca stilistica. Gli album dei The Watch paiono esse stesse, talvolta, delle quasi-cover dei Genesis, riuscendo a ricordandoceli da vicino pur non clonandoli in modo effettivo. Tuttavia, questa volta, una cover c’è, ma non si tratta in realtà di una canzone dei Genesis: la prima traccia dell’album, “Blackest Deeds”, altro non è che la riproposizione, pressoché identica, di “My Ivory Soul”, brano presente nell’album pubblicato a nome The Night Watch (“Twilight” - 1997). In questo loro settimo album in studio, attorno a Simone Rossetti, troviamo la stessa line-up del precedente “Tracks from the Alps”, nonché un ospite d’eccezione nella persona di Steve Hackett che offre il suo contributo alla 12 corde nella traccia “The Hermit”, abbastanza breve e melliflua, salvo accelerare sul finale, guidata dall’elettrica di Giorgio Gabriel. Facendo un passo indietro, detto dell’iniziale “Blackest Deeds”, che ci riporta alle sonorità degli inizi della band (inclusi i primi due album a nome The Watch), sospese fra Genesis e IQ, la successiva “Disappearing Act” ha sonorità più elettroniche, vagamente Depeche Mode; oscura e un po’ inquietante. “Masks” ha invece connotati più brillanti e leggeri, con una chitarra melodica e una ritmica movimentata e quasi spensierata, se non fosse per la drammaticità sempre apportata dalla voce di Simone. “Copycat” inizia con la sola voce accompagnata da synth discreti per poi sfociare in un altro brano ritmato, con delle tastiere molto new-Prog e una deliziosa parte di flauto sulla parte centrale che spezza quasi in due un brano dalle caratteristiche piuttosto anni ’80. “It’s Only a Dream” è un brano breve e malinconico, sorretto dalla chitarra acustica, che si sposta leggermente verso territori Yes-style (anche se, su un inciso che viene ripetuto alcune volte, a un vecchio fan di Scrubs verrebbe quasi da cantare “I’m not superman…”). Con “Tightrope” e con la conclusiva “After the Blast” (inframmezzate dalla citata “The Hermit”) torniamo invece su chiari territori genesisiani; primi Genesis per la prima delle due, più tardi (periodo “Wind and Wuthering”) per la seconda. The Watch è certamente uno dei gruppi più professionali e strumentalmente validi che il Prog italiano possa annoverare; è doveroso ricordarlo sempre. Si può, come sempre, obiettare e disquisire della validità della loro proposta ma ripetercelo ogni volta è davvero un’operazione oziosa. Questo loro nuovo album ripesca (anche letteralmente, come abbiamo visto) alcune sonorità ed atmosfere del loro passato, dopo che gli album precedenti se ne erano leggermente discostati, ed offre comunque la consueta dose di Prog dalle attraenti caratteristiche per un approccio prettamente epidermico. Manca forse, a mio parere, il quid in più, il brano che si stacchi da un pur buon livello generale che però difficilmente rimarrà memorabile.
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Alberto Nucci
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