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FUNGUS FAMILY |
The key of the garden |
Black Widow Records |
2019 |
ITA |
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Per il suo quarto album in studio la formazione genovese che da sempre ruota attorno a Carlo Barreca (con pochi ma -ahimé- costanti cambi di formazione di album in album, inclusa la prematura scomparsa del fondatore Alessandro Vernetti) si presenta col nome integrato dalla dicitura “Family”. Questa aggiunta è figlia della comparsa, negli anni precedenti, di un’altra band omonima (sparita però nel giro di un paio di stagioni) ma anche della volontà forse di sottolineare il carattere collettivo e quasi familiare di questa nuova incarnazione della band… o anche per segnare una sorta di punto di svolta dopo la scomparsa di un fondatore della band. “The Key of the Garden” è dunque il primo album senza l’apporto di Vernetti (se non come compositore, presente nei credits), nonché il terzo della trilogia iniziata dall’album “Better than Jesus” (2010) e proseguita nel 2014 con “The Face of Evil”. Il faro che guida la band è ancora il rock psichedelico che ci riporta agli anni a cavallo del 1970, con numerosi riferimenti ai primi Pink Floyd, ai Van Der Graaf Generator, Hawkwind e ad altre realtà minori del periodo… ma anche più recenti, come i Bigelf. Proprio dei Pink Floyd viene presentata una bella reinterpretazione niente meno che di “See Emily Play” mentre il brano che chiude l’album (“The Weaver’s Answer”) è dei Family (inclusa forse anche per omaggiare il nuovo monicker…?); la presenza degli Hawkwind è invece ancor più tangibile, grazie all’apporto dei fiati suonati proprio da Nik Turner su due tracce. Lo hard Prog cui la band si è votata dopo il discreto album d’esordio fatto di improvvisazioni e jam torna a riempire gli auricolari con progressioni ruggenti alternate a momenti più rilassanti e melodici. La splendida alternanza di atmosfere trova il punto più alto nel brano centrale dell’album “1Q84”, sicuramente il mio preferito, 12 minuti di saliscendi umorali, lunghe trame musicali sinuose e piacevolmente psichedeliche alternate a sfuriate strumentali e vocali. Un altro brano che colpisce è senza dubbio il penultimo, anch’esso oltre (sia pur di poco) i 10 minuti, ovvero “Holy Picture”, registrato dal vivo e che, proprio per questo, acquista una marcia in più nonostante alcune incertezze strumentali che poco vanno però ad intaccare la trascinante carica emotiva che viene a crearsi. Molto belle le più brevi “Eternal Mind”, che beneficia del magico flauto di Turner, così come anche la cupa “Becoming To Be” che sembra realmente uscita da un vinile dei Bigelf. Discreta anche la traccia d’avvio “Suite No 5 - Part 1”, dall’avvio quasi spensierato e un po’ alla Caravan che però ben presto lascia il passo a divagazioni psych, country (!) e vandergraffiane. Si tratta di un album senz’altro divertente, a tratti oscuro ma in cui non manca (quasi) mai una certa leggerezza di fondo, non ancorato all’esigenza di mantenersi su sonorità hard o psichedeliche ma in grado di spaziare agevolmente senza perdere la bussola e la coerenza musicale.
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Alberto Nucci
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