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ZEROTHEHERO |
Nowhere |
autoprod. |
2013 |
ITA |
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Il genovese Carlo Barreca – in arte “Zerothehero” – è tutt’altro che un musicista di primo pelo: lo ricordiamo come bassista nei due album dei Fungus, compagine di rock psichedelico assai influenzata dai seventies che a breve tornerà sul mercato con un terzo lavoro, per non parlare della prog band Oxhuitza prodotta da Fabio Zuffanti o, sempre per quanto riguarda quest’ultimo, della partecipazione ad “Autumnsymphony” (2009) dei gloriosi Höstsonaten. Esiste poi quella che pare essere un’esistenza parallela, in cui Barreca veste i panni del polistrumentista e dà vita ad album solisti parecchio influenzati dallo space-rock elettronico. L’esordio “Horror vacui” (2011) è stato al riguardo assai significativo, con chiari rimandi ai vecchi Pink Floyd che muovevano i passi verso la sperimentazione. Con questo secondo lavoro, volendo escludere bootleg vari, l’artista si concentra ancora di più sulle origini floydiane, in particolar modo quelle che hanno parecchio influenzato i primi Porcupine Tree, divenendo per lunghi tratti anche più romantico. L’elettronica incisiva di “March on Mars”, tra sintetizzatori e stick, è il manifesto di quanto aspettarsi, con un fare mantrico che diviene sempre più incalzante ed in cui si può scorgere nelle fondamenta un basso molto vivo. Ci sono poi pezzi come “Lotus” e “Last Bus Home” che sicuramente piaceranno anche agli amanti dei Secret Saucer più quieti, mentre “Flood” è a livello creativo tra le cose migliori, in cui si alternano fasi pianistiche in stile “The Wall” ad intermezzi pischedelici crimsoniani con sorprendente naturalezza, concludendo con un finale al flauto traverso che non può non ricordare le atmosfere da bosco elfico in cui si dilettavano a girovagare i Jethro Tull. “A Deep Breath” e “Raindrops” sono due meditazioni di tipologia differente: la prima è una quieta meditazione ambient con i pensieri completamente aperti, mentre la seconda appare più inquietante e si conclude anche con delle parti cantate nello stile del vecchio Wilson (il quale aveva abbondantemente ripreso i modelli di cui sopra). “Electric Sheep” è ‘Floyd fin dal titolo, anche se i territori seguiti non sono quelli appartenenti a “Animals” ma molto più sognanti e comunque assai piacevoli. Pezzi come “Shelter” e “Peace” giungono alla fine di un album che ha già da un po’ detto più o meno tutto e forse, proprio per questo, si ascoltano con maggiore velocità rispetto a quanto in realtà meriterebbero. Gradevole, piacevole, a tratti accattivante… Questi gli aggettivi da usare per chi apprezza il tipo di proposta. Non certo un lavoro imprescindibile, piuttosto un esperimento solista che si fa apprezzare per la sua pacatezza, soprattutto se lo si ascolta in momenti di relax. Ebbene sì, nella vita occorre anche questo!
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Michele Merenda
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