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NTH ASCENSION |
Stranger than fiction |
Metatronic Records |
2019 |
UK |
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Il quarto album della band di Blackpool non sembra evidenziare alcuna novità rispetto ai precedenti: formazione ancora immutata (e questo è senza dubbio un fattore positivo), solito schema che include composizioni lunghe e meno lunghe, tre delle quali ispirate ad altrettanti capitoli di “Clanaan” (racconto fantasy ideato dal tastierista Darrel Treece-Birch), e una musica decisamente orientata su un new-Prog alla Arena nella quale non mancano, come nei lavori precedenti, momenti più melodici e sinfonici, con un forte dualismo tra tastiere e chitarra che si ripete in tutte le canzoni, vedendo ora il prevalere dell’una sulle altre, ora viceversa (sì… a volte sembra proprio una competizione). In questa sede quindi si potrebbero in teoria prendere le recensioni dei due album precedenti e sovrapporle tranquillamente, cambiando giusto qualche titolo. Non ce la possiamo tuttavia certo cavare così a buon mercato… La prima parte dell’album, dopo il lento intro della prima traccia (“The Opening”), procede in maniera piuttosto energica e ritmata, addirittura con movenze rock blues nella prima parte della lunga “Reconciled”. Lo stesso brano, nel prosieguo, rallenta l’andatura ed espande le atmosfere, ricordandomi qualcosa dei tardi Genesis, con atmosfere ricche di pathos e un bell’assolo di chitarra ad insaporire il tutto. Il terzetto di brani che si riferiscono agli altrettanti capitoli di “Clanaan” dovrebbero in teoria rappresentare il punto centrale (non solo dal punto di vista fisico) dell’album. L’ultimo dei tre (“Lament”) è delizioso ma si protrae per meno di due minuti. Di certo i due precedenti “The Gathering”, dal forte (fortissimo!) sapore marillioniano, e soprattutto i 15 minuti e rotti di “Journey’s End”, con una prima parte dalle atmosfere oscure e ripetitive ed un cantato inquietante, sono i brani su cui la band forse puntava maggiormente. Nulla di memorabile invece, alla resa dei conti. Sicuramente più attraenti risultano i 17 minuti finali (allungati poi da una brevissima ghost track) di “Sound To Light” che si aprono con la chitarra acustica ed un cantato in lento crescendo. Delle delicate tastiere vanno poi ad aggiungersi ed infine il brano comincia a decollare, sempre nell’orbita di Marillion ed Arena. Un lungo ed etereo intermezzo centrale spezza il ritmo e ci conduce lentamente alla parte finale, introdotta da ritmiche jazzate. L’album, come si diceva, non presenta nulla di nuovo per chi già conosce questa band inglese. Nulla di più e nulla di meno di un solido new Prog britannico ma l’impressione personale è comunque quella di un lieve passo indietro rispetto ai lavori precedenti.
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Alberto Nucci
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