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KING OF AGOGIK |
After the last stroke |
sAUsTARK Records |
2019 |
GER |
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Il progetto del polistrumentista (prevalentemente batterista) Hans Jörg Schmitz arriva al settimo album, continuando a coinvolgere un più che discreto numero di ospiti. L’odierno termine “Agogik”, adottato nella denominazione del gruppo e spiegato a fondo su queste pagine virtuali nella recensione del quinto lavoro intitolato “Exilex beats” (2014), pare sia stato preceduto dal nome di quella che a suo tempo era la cover band “The Assholes”; quando il chitarrista dell’epoca smise di suonare nel bel mezzo di un suo assolo a causa di una rullata che letteralmente lo aveva sovrastato sonoramente (a anche fisicamente, a quanto pare!), ecco cambiare il nome proprio in “Agogik”, sottolineando il mutare della velocità. Schmitz si è sempre divertito a estrapolare, trasfigurare e poi nascondere spezzoni di brani altrui nelle proprie composizioni, praticamente sfidando l’ascoltatore a riconoscerne gli autori originari. Una proposta divertente (ma i più seriosi ovviamente disdegnano ciò!) che ha sviluppato risultati qualitativi alterni e che negli ultimi album sembra essersi alzata comunque di livello. Ma in questa pubblicazione, oltre a citazioni musicali esplicitamente dichiarate, sembra che non ci siano dei rimandi a composizioni vere e proprie – se non le lampanti ispirazioni che guardano ai vecchi classici del prog sinfonico e anche, successivamente, del neo-prog – bensì riferimenti a persone e situazioni esistenziali. Ne è un esempio lampante l’apertura affidata a “The White Raven”, dedicata a Kees Hoekert, hippy olandese che si battè per la legalizzazione in patria della cannabis. Un personaggio che ha vissuto fino alla fine dei suoi giorni sulla casa galleggiante denominata "De Witte Raaf", che significa per l’appunto “Il corvo bianco”, come da titolo. Introdotto dal pianoforte, il pezzo si sviluppa in maniera intricata, tra sinfonismi allucinati, neo-prog e sporadiche pesantezze prog-metal, mentre viene ripreso il testo del dialogo su “L’estate dell’amore” del 1967. La successiva “A Day Without End” è senza dubbio la composizione migliore: venti minuti e mezzo dove – a proposito di polistrumentisti – regna sovrano Steve Unruh tra flauto Tulliano, violino sognante e chitarra. Il leader (tra gli altri) dei Resistor ben si interseca con il piano e le tastiere di Enno Nilson, per un brano che si adatta benissimo alla bella immagine appositamente preposta nel solito ottimo booklet; un pezzo, in questo caso, dedicato a chi non ha avuto la possibilità di vivere la propria vita in pace e libertà, magari finendo al Creatore troppo presto. Un sole rosato al tramonto che vorrebbe guardare ad un giorno… senza fine. A dire il vero, a proposito di “scippi” ad altri brani, qui viene a volte in mente “Plafone” dei nostrani Elio e le Storie tese, chiara parodia di prog raffinato. Che sia solo una straordinaria coincidenza? Altro termine di paragone potrebbero essere i Camel, soprattutto quando è la chitarra (di Dago Wilms?) a farla da padrone. Gli altri pezzi, però, spesso non raggiungono il medesimo livello. Occorre citare tra le varie tracce “Gannef”, che non a caso in lingua olandese significa “ladro”; questo è uno di quei casi in cui il nostro ha “rubato” e quindi rielaborato spezzoni di composizioni di altri artisti, in questo caso dell’ensemble chiamato Kolsimcha, di matrice klezmer, dove suonava il batterista svizzero Fabian Kuratli. Davvero molto stimato da Schmitz e deceduto a soli trentotto anni, questo vuole quindi essere un sentito omaggio ad un valido collega sparito troppo presto, con la voce esotica di Alanda Scapes ed il pianoforte di Philipp Schmitz che deve fare acrobazie assieme alla chitarra jazzata di Johannes Andrè in un’atmosfera decisamente orientale. “Patterns on the Water” è in stile Barclay James Harvest, dedicata allo scomparso Stuart “Wooly” Wolstenholme, il quale fondò proprio il gruppo prog di cui sopra assieme a John Lees. Composizione basata principalmente sulle tastiere suonate dallo stesso Schmitz, dedicata anche alla madre di Andrew Marshall (il quale qui suona la chitarra a dodici corde), deceduta dopo aver inciso questo pezzo. Spiazzando tutti, “Plug In – Plaques Out” si apre prima con voci in italiano che parlano del prof. Giuseppe Calligaris, seguite a ruota dalle chitarre furiose di Dago Wilms. Un omaggio decisamente abrasivo per il poco conosciuto autore di esperimenti parapsicologici, che a volte assurge a toni epici, ricordando con le parti più quiete certe vecchie trasmissioni televisive. “Watching Moon” è un altro breve episodio molto etereo, dove vi è l’oboe di Peter Simon e campane varie, dedicato ai genitori scomparsi, prima di arrivare alla strana “Back in the Second Line”, dedicata a Frank Zappa. Sintetizzatori quieti che fanno da base ad una preghiera, prima che il rullare di un tamburo lasci il passo a dei fiati che potrebbero chiudere di colpo l’album. Invece ci sono i quasi quattordici minuti di “Retromatic Lullaby”, dedicata ad eroi scomparsi del prog come Chris Squire, Keith Emerson e John Wetton. Rock progressivo sinfonico e romantico, dove Schimitz si divide tra batteria, chitarre e soprattutto tastiere, per un risultato finale che potrebbe apparire come un enorme minestrone, a tratti saporito e a tratti pesante da mandare giù. Forse non il migliore album dei King of Agogik, pur rimanendo nel medesimo stile, che in certi momenti occorrerebbe capire che strada vuol prendere, nonostante il dichiarato trasformismo sonoro. Detrattori e ammiratori sono stati quindi debitamente avvisati.
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Michele Merenda
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