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TIRILL |
Said the sun to the moon |
Fairy Music |
2019 |
NOR |
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Questa è la quarta prova da solista che Tirill realizza dal 2003, anno di uscita di un album, “A Dance with the Shadows”, che all’epoca incantò i nostri sensi con melodie oscure e impalpabili, svelandoci le reali capacità di un’artista che prima di allora avevamo conosciuto, ai tempi di “Ignis Fatuus” (1995), come semplice membro dei White Willow. Ancora una volta Tirill lega la sua musica eterea alla poesia, utilizzando questa volta (ma solo in alcuni brani) i versi del celebre antroposofista Rudolf Steiner. Nel 1912 Steiner ci fornì, nel suo “Calendario dell’anima”, versi settimanali che mostravano come il mutare della natura col susseguirsi delle stagioni potesse aiutare la nostra coscienza interiore ad evolversi. Questo album è dedicato proprio alle mutazioni che la natura, e con essa l’animo umano, attraversano al cambiare delle stagioni. Non vi aspettate però qualcosa tipo “Le quattro stagioni” di Vivaldi… e ovviamente non mi riferisco allo stile musicale quanto alla capacità di trasporre in musica i colori, le sensazioni, ed i mutamenti climatici profondi che la natura attraversa nelle diverse fasi dell’anno. Forse un po’ perché non ci sono più le mezze stagioni e forse un po’ perché in Norvegia fa sempre freddo, non possiamo non notare che anche l’estate e la primavera nella poetica introversa di Tirill somigliano un po’ all’inverno… Scherzi a parte, questa monocromia non svilisce affatto un’opera crepuscolare e intensamente poetica, languida e deliziosa, appassionata e a tratti gotica, simile in definitiva agli standard artistici a cui Tirill, artista che personalmente adoro, ci aveva abituati. Ci tufferemo ancora in paesaggi lunari ed innevati, nella gelida quiete di note che arrivano all’animo di chi ascolta, trasmettendo sentimenti di dolce malinconia. Il ciclo breve di queste dodici canzoni (33 soltanto sono i minuti totali) si apre con “Autumn”, la stagione delle foglie morte, e vi faccio notare, per sottolineare ancora una volta le colorazioni prevalenti dell’opera, come molti di voi (come del resto ha fatto anche Vivaldi) avrebbero iniziato forse dalla Primavera… Il brano è un idillio per arpa (suonata da Uno Alexander Vesje) e voce, quella di Tirill, cui fa eco quella di Julie Kleive che fornisce il suo contributo anche in altre diverse tracce. Le corde scintillano con metallica soavità e la voce di Tirill indugia, sospira, evoca immagini oniriche. Il brano scivola via come l’alito tagliente del vento freddo che preannuncia la stagione più buia. Segue una cover di Nick Drake, “Clothes of Sand”, in cui tutta l’amarezza che traspira della versione originale viene sublimata da una interpretazione sognante il cui pathos viene intensificato dagli archi (il violino di Bjarne Magnus Jensen ed il violoncello di Sigrun Eng) senza intaccare quella semplice veste cantautoriale che mette direttamente in comunicazione il cuore di chi suona con quello di chi ascolta. Ogni stagione viene occupata da una triade di pezzi e quella dedicata all’autunno si chiude con “Under the Harvest Moon”, un brano della tradizione celtica proposto in una versione semplice ed intimistica. “Winter” è pura poesia, non solo per i versi di Steiner, che prendono vita grazie alla voce di Tirill, ma per le trame delicatissime dell’arpa che vi si intreccia con dolcezza. Il brano, brevissimo, termina lasciandoci in sospeso, con un senso di incompiutezza ed incertezza che viene spezzato con ”Under the Small Fire of Winter Stars”. Qui i versi del poeta americano Mark Strand sono recitati, o meglio sussurrati, sullo sfondo di deboli suoni ambientali, dando l’idea che la flebile luce delle stelle invernali non sia sufficiente a rischiarare le lunghissime notti boreali. La stagione più fredda si chiude con lo strumentale “To the Realms of the Spirit” in cui la musica, delineata dalla chitarra e dagli archi, è semplice e pacata. In “Spring” il rifiorire della natura ha l’aspetto di teneri germogli che attraversano con fatica la bianca coltre di neve che sembra eterna. Gli intrecci vocali e gli arpeggi sono scintillanti ma non rigogliosi e ci portano verso la romantica ballad “Shapes of a Dream”, dal sapore cantautoriale. La triade si chiude con una title track dai riflessi celtici e dalle fragranze mistiche. Giunge infine l’estate, “Summer”, ma come abbiamo preannunciato le tonalità rimangono spente, gli arrangiamenti esili e la musica impalpabile nel suo freddo candore. L’estate porta in sé il freddo dell’inverno i cui venti gelidi accarezzano la nostra pelle persino sotto il sole di mezzanotte. “Beneath the Midnight Sun” si stacca leggermente dagli altri brani essenzialmente per un cantato che Tirill condivide con Dagfinn Hoboek, artista che aveva conosciuto come ospite sull’album “Nine and Fifty Swans” (2011). L’album si chiude con “Iridishent Horizon”, dominata da versi recitati che prevalgono sulle atmosfere sfumate ed incerte della musica che rimane sempre sullo sfondo, testimone discreto del messaggio poetico che deve giungere senza distrazioni all’ascoltatore. Tirill ci concede un’opera monocromatica, introversa, e dagli umori dolcemente rassegnati in cui la bellezza della poesia viene messa in risalto da ambientazioni musicali fragili ed affascinanti. La amerete non tanto per la musica, che viene ridotta a una cornice incantevole, quanto per la sua autentica poeticità.
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Jessica Attene
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