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DISEN GAGE |
The reverse may be true |
R.A.I.G. / Addicted Label |
2008 |
RUS |
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Passano altri due anni ed i quattro musicisti russi tornano con il loro prog che sa d’avanguardia fin dalle immagini che compongono la confezione di questo terzo lavoro. Un album che tra le note di copertina presenta ringraziamenti ai musicisti classici Claude Debussy e Joseph-Maurice Ravel, oltre che alla celeberrima figura prog (e non solo) del cantante e bassista John Wetton. L’ispirazione che ha portato ai contenuti musicali definitivi viene sancita anche dai nomi dello scrittore Douglas Adams (“Guida galattica per gli autostoppisti”) e del regista di fantascienza Georgi Daneliya. Proprio a quest’ultimo è collegato il brano d’apertura, “What’s up on planet Plyuk?”, ispirato al suo film “Kin-dza-dza!”. Una pellicola del periodo sovietico, a suo modo satirica, che parlava proprio di questo pianeta desertico in cui si ritrovano proiettati i due protagonisti. Un vento lontano viene subito riempito da musica circense che guarda alla tradizione dell’Est. La marcetta, ritmicamente complessa, si rivela essere l’introduzione della successiva “Landing”, che a sua volta si dimostra solenne, dissonante e cinematografica. Quelli che appaiono come inserimenti di fiati pare che siano sempre opera dei due chitarristi Sergei Bagin e Konstantin Mochalov con le loro sei corde; ad un certo punto sembra che si tocchino dei momenti epici tipo quelli che raggiungeranno i King Crimson dal vivo, anni dopo. Solo che ci si interrompe sempre per far spazio a quelle follie martellanti che imperversano soprattutto tra i fanatici musicali dei Balcani e ad un certo punto il troppo… risulta decisamente troppo! Belli gli intrecci suadenti di “Lehalm to N.E.P.”, dove si fa ampio ricorso al suono dei fiati e l’atmosfera è maggiormente jazzata, lasciandosi anche andare a complessi ed abrasivi assoli sulle sei corde, che come tutte le belle trovate presenti in questo lavoro finiscono sempre troppo presto. Su “Exyrinx” grava una forte coltre di oscura circospezione, in cui le percussioni suonano alcuni millimetrici passaggi sempre allo stesso punto, mentre tutto ciò che sta attorno va montando in maniera preoccupante. Un’interessante costruzione che però finisce per essere tirata troppo a lungo nell’arco di oltre sette minuti. Il ritorno alla matrice crimsoniana lo si avverte su “The Parovoz Hitchhikers to Japan”, che oltre ad un titolo assurdo mette in luce quella componente jazzata e schizoide che i nostri sembrano padroneggiare bene quando vogliono. E visto che ci siamo, parte “God saw otherwise” che continua sulla falsariga della linea tracciata dalla band di Robert Fripp. I suoni solisti sono acuti e violenti, tipo “Power to believe” (2003), intervallati con quelle cesellature che la famosissima band britannica inaugurò negli anni ’80. Ma c’è anche di più, perché si avvertono persino dei riferimenti cosmici. Sarebbe stato uno di quei momenti da sviluppare meglio ma ovviamente, quando questo accade, i quattro decidono che va bene così e si interrompono, preferendo evidentemente dilungarsi con le trovate più ossessive e disturbanti. Non si fa peccato se si ommette qualche traccia e magari ci si concentra su “Ikar’s Guide to the Galaxy”, autentico avant-prog/jazz che di sicuro guarda (tra i vari riferimenti) al Frank Zappa più “paranormale”. Si sentono anche dei versi acuti e serrati, che fanno da intreccio con tutte le altre trovate strumentali, fino a quando – dopo il sesto minuto – la musica cambia di colpo e diventa meditativa. È su questo rinnovato andazzo che la conclusiva “How much is Oxygen on planet Khanud?” si mostra più tranquilla, mischiando estrazione jazz con visioni cosmiche. Un viaggio nelle profondità galattiche, condito verso la fine anche da accenni neoclassici. Davvero denso questo terzo capitolo della band moscovita. Il rinnovato sforzo compositivo è evidente, assieme alla complessità delle strutture. I due ultimi pezzi sono forse i migliori, ma anche durante tutto l’arco dell’album vi sono spunti davvero apprezzabili, soprattutto per chi ama approcci più avanguardistici. Ci si libera man mano della presenza di Robert Fripp, pur non rinnegandola mai del tutto, e inglobando nuovi elementi, tra cui anche un certo senso dell’umorismo (bestemmia, per l’artista di cui sopra!). Magari, la carne messa al fuoco è stata davvero tanta, finendo a volte per non sviluppare ciò che invece meritava di essere ben articolato. Oltre ai già citati chitarristi, corre l’obbligo di far menzione della sezione ritmica formata dal bassista Nikolay Syrtsev e dal batterista Eugeniy Kudryashov. I quattro hanno quindi raggiunto un affiatamento perfetto, peccato che il gruppo si fermerà qua e farà il suo ritorno otto anni più tardi presentando una formazione rinnovata. Con questo lavoro si è quindi chiuso un capitolo della loro storia, che si dimostrerà aperta a nuovi risvolti.
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Michele Merenda
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