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KORAI ÖRÖM Korai öröm 1996 Szerzöi Kiadás 1996 UNG

Secondo album omonimo in due anni per la psychedelic-ethno space prog band di Budapest, affrettandoci a puntualizzare che alcuni indicano quest’album con la denominazione “Korai öröm 1” (nonostante il primo album auto intitolato risalga ad un anno prima), altri semplicemente con l’anno di uscita, “1996”. Solitamente, almeno per quel che riguarda i primi lavori, i pezzi (mai pubblicati con una denominazione ma solo con dei numeri) venivano estrapolati dalle esibizioni live e poi remixati in studio. Quelli contenuti in “Korai öröm 1996”, per quanto è dato sapere, hanno introdotto un concerto al Katona Jozsef, il più famoso teatro d’Ungheria.
Il brano n. 1 di nove minuti, che si rivela una lunga ambientazione sonora con una distorsione chitarristica finale che sembra confondersi con il tramonto autunnale del retrocopertina, in realtà risulta essere l’introduzione al seguente n. 2, le cui impostazioni vengono dettate dal bassista Zoltán Kilián, su cui si muovono enigmatici gli altri strumenti. Un pezzo che sicuramente influenzerà parecchio, da lì a qualche anno, i russi Vespero.
Psichedelia spaziale ottenuta senza l’aiuto di nessun synth o sequencer nella traccia n. 3, ma allo stesso tempo vicinissima agli Ozric Tentacles. Una lunga parte che scorre tranquilla, nonostante si avverta una tensione di fondo, per essere poi sviluppata con dei riff duri su cui poter innestare delle linee soliste visionarie. Il quarto momento si apre in maniera molto simile a “Master builder” dei Gong, rivelandosi un pezzo in cui delle voci trasfigurate accompagnano la ritmica di una pseudo polka lisergica. Il tema portante si ripete forse troppo, anche se poi le chitarre di György Horváth e Péter Takács proiettano l’ascoltatore direttamente tra i fiumi della Mesopotamia.
Dopo l’immancabile track di intermezzo per percussioni e “rumorismi” a fiato emessi con il didgeridoo, si passa subito al brano 6, che in quattordici minuti, con un lavoro percussivo stavolta funzionale alla musica, riporta nuovamente per le strade che conducono ad oriente, anche se il viaggio appare forse eccessivamente lungo.
Altra pausa riempitiva e poi ecco i diciassette minuti del pezzo finale. Un flauto magico suonato vicino l’orizzonte fa da apripista ad un gran lavoro di voci, chitarre energiche e sezione ritmica. Quest’ultima ritorna sempre allo stesso punto, non sbagliando mai entrata al termine del giro; chi ascolta rimane quasi ipnotizzato e non si accorge delle intrusioni tastieristiche di Emil Biljarski o dei chitarristi. Il flauto, col trascorrere dei minuti, fa nuovamente gli onori di casa, spalancando le porte su un’oasi nelle pianure desertiche battute probabilmente da qualche beduino di passaggio, scemando gradatamente fino alla fine.
Un album che come produzione risulta più compatto rispetto all’esordio, in cui ci si concentra maggiormente sulle atmosfere scaturite dalle varie trovate ritmiche, rispetto ad un primo lavoro in cui erano maggiormente presenti delle partiture solistiche. Opera comunque affascinante, che forse è rimasta maggiormente nel cuore ai fan di vecchia data.


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Michele Merenda

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