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ØRESUND SPACE COLLECTIVE Good planets are hard to find Transubstans 2009 DAN/SVE

In occasione delle precedenti uscite di questo collettivo multietnico, sì è già spiegato quali siano le loro modalità operative. Il fatto di pescare il materiale da pubblicare, tra quello suonato in lunghissime jam, totalmente improvvisate, ha avuto un significato determinante nella vita della band, sia per l’aspetto positivo, ma anche per l’aspetto negativo: in effetti avere molte ore da cui pescare, ma tutte derivanti da una stessa session ha comportato un certa ripetitività di schemi, problema accresciuto in occasione della penultima uscita. Per questo quinto lavoro è stato utilizzato materiale registrato durante nuove sessions, nel novembre 2007 ai soliti Black Tornado Studios di Copenhagen e con personale differente. Inutile dire che questo ha sensibilmente giovato al risultato finale di “Good Planets Are Hard To Find”, che si presenta decisamente più prog in senso ampio, più fresco e meno ripetitivo rispetto al precedente “Inside Your Head”. Il line-up vede nuovi ingressi e tra essi è fondamentale l’arrivo del membro dei Siena Root, KG West (sitar, chitarre, Hammond) che soprattutto nella title track, primo brano e nell’ultimo brano, la lunghissima suite “MTSST” dispone di spazi molto ampi da riempire con il sitar, generando atmosfere indo-space molto intriganti. Cambio anche dietro ai tamburi con l’arrivo di PIB (ma non potrebbero indicare i nomi come fanno tutti?) un batterista molto dinamico e fantasioso che si inserisce decisamente bene nel posto che fu sempre di Søren. I sei brani del lavoro occupano, come sempre, tutta la possibile durata del CD, così troviamo una breve “My Heel Has A Beard”, solo sei minuti, ma anche tre lunghe suite: la citata “MTSST”, “PF747-3” e “Orbital Elevator” che con le sue rincorse floydiane - Hawkwind regala un trip veramente notevole.
Gli sviluppi e le tessiture sonore, non sono certo nuove, ma poter sentire materiale fresco, inciso in maniera così diretta e vigorosa è sempre una bella scossa, un bel vagare in una serie di voli sonori che raramente si avviluppano su loro stessi, ma che invece, più spesso, aprono spazi (mentali e fisici) che si allargano e si dilatano in maniera viva e pulsante. Perdere la testa e il contatto con il reale è facile nelle colate di space prodotto dalle chitarre, almeno fino a quando i suoni si mantengono ad un palmo buono dalla pura melodia, sfiorandola ma senza mai scendere a compromessi con essa. Non ci sono strizzate d’occhio a nulla, non c’è autocompiacimento, solo una rincorsa di anime nello spazio: l’etere si satura della nervosa voglia di suonare e, anche quando il sitar decide di riportarci in una scia più luminosa, di tacita ascoltabilità, ecco l’Hammond pronto a gracchiare che non c’è quiete nello space e che dopo di lui un altro assolo fiume di chitarre incrociate come sciabole, arriverà per farci perdere e rigenerare tutto, daccapo.
Davo il gruppo in imminente stasi di idee, ma sono contento di essermi dovuto ricredere. Credo che questo lavoro, più complesso, difficile in accesso e anche in digeribilità, abbia riportato la band su standard elevati e, seppur non a livello di ”It's All About Delay”, si attesti come un ottimo lavoro del suo genere, quindi gli appassionati possono tranquillamente avvicinarsi.



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Roberto Vanali

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