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OSIRIS Take a closer look Musea Records 2020 BAH

Ruotando sempre attorno al trio di musicisti rimasti dal nucleo che registrò il primo album della band nel 1981, questo gruppo del Bahrein torna a farsi sentire dopo ben 13 anni. Facendo un rapido conto dell’attuale line-up, su questo disco hanno suonato Mohammed Al-Sadeqi (chitarra), Nabil Al-Sadeqi (batteria), Abdul Razzaq Arian (tastiere); questo è il trio dei fedelissimi di cui si diceva e a cui si aggiungono stavolta Ahmed Al Qassim (basso), Khalid Al Shamlan (tastiere e piano) e Ahmed Ravanbach (voce).
E’ sempre difficile, parlando di questa band, prescindere dalla sua particolare provenienza geografica ma questa volta, se si lascia scorrere la musica in maniera inconsapevole o comunque senza troppo riflettere su questioni di geopolitica, almeno per un po’ ci sembrerà di trovarci alle prese con una band di Prog sinfonico norvegese o a qualche nostalgico ensemble britannico. Nessun indizio e nessun particolare di queste 8 tracce ci porterà in direzione del Golfo Persico, a cominciare dal buon accento inglese del vocalist per proseguire con il Prog sinfonico senza compromessi che sembra riportarci al 1973 o giù di lì…. oppure sulle rive del mare del Nord…. fino alle strizzate d’occhio al rock melodico e al pomp rock degli ultimi brani.
Va bene… l’originalità e la particolarità della band forse ne risente un po’, ma il gruppo stavolta a fatto questo genere di scelta e il risultato, dal punto di vista della godibilità e della riuscita, non può lasciare indifferente gli appassionati del BVPS, ovvero il buon vecchio Prog sinfonico, almeno per una buona metà del disco.
Yes, Camel, Genesis, Jethro Tull, Kansas… troviamo tutti questi nomi storici tra le pieghe delle note delle prime 5 tracce, in un tripudio di atmosfere affabili e di sinfonismi accattivanti, deliziosamente realizzati ed intrecciati da un gruppo oramai veterano. La qualità di registrazione rappresenta uno dei pochi fattori deboli di questo piacevole dischetto, anche se spesso, purtroppo, ci capita di ascoltare ben di peggio.
Delizioso il flash rock della traccia d’avvio (“A Bird of Pray”); la lunga title track (9 minuti) avrebbe potuto essere un classico del rock melodico, se realizzata 40 anni prima; “Pride’s Insanity” e “Inner Thoughts”, di poco più brevi, cercano invece di stupirci con un’interpretazione eclettica che spazia lungo 50 anni di storia del Prog. Carino il lungo strumentale “Until We Meet”.
“And It’s Over”, per quanto divertente, costituisce il primo scivolone verso un AOR proveniente direttamente dal profondo degli anni ’80, un rock trascinante e ricco di ritornelli che stride con quanto ascoltato nelle tracce precedenti. Ci serve un brano strumentale come “The Elevent’s Hour” (che sembra spostarsi addirittura verso i Marillion) per riprenderci un po’…. ma la conclusiva “The Slayer”, ancora ricca di riff AOR, sembra volerci affossare.
Si tratta di un album a tratti delizioso, specialmente nella sua prima parte, che avrebbe potuto rappresentare una delle migliori uscite dell’anno, se il gruppo non avesse voluto strafare.



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Alberto Nucci

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