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Nella musica, I Van Der Graaf Generator, sono l’equivalente storiografico dei grandi popoli della terra: il loro Pawn Hearts è un Codice di Hammurabi, ogni loro canzone è una pietra angolare della Grande Piramide, ogni loro nota è una pianticella dei giardini pensili di Babilonia, ogni accordo, ogni sincope e ogni frase, sono sassi del Colosseo e del Faro di Alessandria. E la fortuna è che abbiamo tutto a portata di mano, tutto l’antico e anche tutto il nuovo.
Possiamo, quindi, avere pretese da un sessantenne litigioso, isterico, malato di cuore, che ha fatto per tutta la vita la sua musica, senza quasi chiedersi cosa succedesse al di fuori? Personalmente credo di no. Quello che forse si poteva sperare è che non litigasse con Dave Jackson, e invece lo ha fatto. Così, per questa nuova uscita, il momento dell’appello in sala di registrazione, è stato piuttosto breve: Mr. Hugh Banton, Mr. Guy Evans e, ovviamente, Mr. Peter Hammill. Quindi niente fiati e, a compensazione, più chitarre e più tastiere.
Per l’analisi, non che avessi molta intenzione di fare un track by track, ma non vedo molte alternative, con un disco che in copertina porta cotanto nome.
L’avvio del disco non è dei migliori, penso a quanti dischi abbiano messo il pezzo più debole come opener, ma così al volo non me ne sovviene nessuno. Così “The Hurlyburly”, mi passa veloce e l’unica cosa che mi resta in mente è quel giro di organo che mi ricorda tanto il ritornello di “Laura non c’è” di Nek, urca, che brutta cosa. Oltre a quello c’è qualcos’altro che, passato in rassegna, mi sottolinea un effetto diverso da quel che mi aspettavo. Già, mi aspettavo un terribile suono di chitarra, fatto da un Hammill che con la chitarra, seppur molto personale, piace a pochi, invece – tutto sommato – il suono è apprezzabile. La successiva "Interference Patterns" mi mette subito di buon umore: un serratissimo 6/8, con un cantato contorto e sincopato unito a strumentazioni spigolose, ora scarne, ora più ricche, Banton si balocca con il suo organo come un bambino e il suo pezzo di creta, lasciando alla fantasia di scorrere libera all’infinito, costringendo Evans a un dialogo compatto e, a tratti, alienato. Sfavillante brano che avrebbe potuto trovare collocazione, in passato, in diversi altri lavori hammilliani. Proseguendo, possiamo solo immaginare cosa sarebbe stata “The Final Reel” con un flauto e con il sax di Jackson e non con il registro dell’organo e lo strimpellio chitarristico, ma il brano è questo e, nonostante tutto, è meraviglioso e l’uso di un VERO pianoforte lo rende sublime, nella sua rincorsa melodica e anche se quei secondi di registro fisso dell’accordo finale ci fanno venire voglia di rimetterlo immediatamente, le prime note della seguente “Lifetime” ci obbligano ad andare avanti. Ancora una grande melodia e un Hammill particolarmente centrato fanno di questo brano a tratti minimale, sorretto da un cantato molto notturno, un altro punto positivo del CD, nonostante l’atmosfera lirica un po’ rubata a “Silent Corner” e una prima parte in cui Evans deve inventarsi un trastullo di charleston che ha molto del: “Tanto qualcosa ci devo mettere!”
A ruota abbiamo “Drop Dead”, brano aggressivo e sanguigno che riprende in parte le tematiche di “Hurlyburly”, questa volta con un cantato secco e rockeggiante su riffs incrociati di organo e chitarra e con Evans che picchia in quattroquarti con l’energia di un ventenne. Tornano le atmosfere tenui e rilassate vagamente jazzy e vagamente psichedeliche con “Only In A Whisper”, brano incantevole che corre con una dinamica bilanciata e disperata, degna dei grandi dischi del passato. Attacco maestoso ed epico per “All That Before”, tempi troncati, fraseggi hard, Evans in grande evidenza con poliritmie ben studiate, organo che monta, sovrasta, smonta, ritorna, scompare e riappare dietro alle chitarre distorte e alla melodia in stile K Gruop. Finalino ruffiano alla “Pawn Hearts”. E poi eccola “Over The Hill”, che potrebbe meritare una trattazione tutta per sé, tale e tanta è la variegata presenza che ha. Meraviglia è che dopo questa montagna di dischi, questa immane produzione, Hammill riesca ancora a trovare melodie così affascinanti, ricche ed emozionanti. Poi il solito giochetto delle parti strumentali tranello, con le loro catartiche aperture in maggiore, ma che in maniera subitanea vengono mutilate, per far spazio a devastanti sequenze di accordi che lacerano la mente, unendosi a funamboliche poliritmie giocate con grande naturalezza. Chiude un breve esercizio in pieno stile VDGG “(We Are) Not Here”, molto piacevole pure questa, con i suoi tempi dispari e le sue stralunate atmosfere.
Abbiamo chiarito che qui dentro ci sono 53 minuti di ottimo prog. E’ vero, non c’è un solo secondo di musica che non sia riconducibile a qualcosa di già sentito nei dischi del gruppo o dell’Hammill solista, non c’è nulla di nuovo, solo 9 brani di magica atmosfera vandergraffiana. Riprendendo una frase del disco mi chiedo se sia possibile “darsi un contegno sulle sabbie mobili”, sentirsi affondare e farlo con sincera nobiltà… che grande personaggio!
Insomma perché tutti gridano al miracolo e comprano l’ultimo dei REM solo perché i REM hanno fatto un disco dei REM? Ebbene i Van Der Graaf Generator hanno fatto un disco dei Van Der Graaf Generator … è poco? Echissenefrega... perché non dovremmo gridare al miracolo anche noi?
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