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La foga creativa del tastierista Gennady Ilyin è come un fiume in piena e dal 2000, anno di stampa del debutto “Porcelain Pavillion”, ad ora sono ben dieci gli album realizzati, incluso “Magic Shop”, disponibile per il momento solo online, e “The Paris Symphony”, contenente vecchie composizioni inedite. A livello compositivo il nostro Gennady ci ha sempre abituati a materiale di valore da cui traspare tutto il suo rigore accademico e che permette di porre in bella mostra le sue indiscusse doti di esecutore. L’impressione è che questo artista abbia sempre tantissimo da dire e in alcune occasioni la maestosa sovrabbondanza di idee ha generato composizioni decisamente infarcite e barocche. In questa occasione troviamo un compositore più misurato ed una musica che, seppure conservi tutta la sua maestosa regalità Emersoniana, si sviluppa in modo più arioso con una attenzione particolare nell’elaborazione delle linee melodiche. Chi conosce i precedenti lavori dei Little Tragedies difficilmente rimarrà deluso perché troviamo qui la riproposizione di una formula più che collaudata: un prog sinfonico sgargiante e tastieristico con ampi riferimenti alla musica classica, barocchismi, sfoggio di tecnica, quel cantato in russo quasi recitato dello stesso Gennady che ormai è come un marchio di fabbrica (ma che in questo album viene molto limitato in favore di lunghe parti strumentali), tanta esuberanza, potenza ma anche una orgogliosa passione per la propria musica che si percepisce in modo più che tangibile. Dicevo che un aspetto che apprezzo molto in questo album è l’attenzione verso la melodia ma soprattutto la cura nella creazione di motivi che lascino il segno nell’ascoltatore. Non è una cosa facile da ottenere quando si ha a che fare con musica complessa e ampollosa ma già dopo un ascolto le melodie topiche dell’album riaffiorano magicamente alla memoria e non è da tutti. Alcuni motivi, sviluppati in maniera più rilassata, anche se, lo ribadiamo, con la solita ricchezza di dettagli, sembrano quasi la colonna sonora di un film, come ad esempio l’imponente “Old Conquistador”, un pezzo a dir poco epico ma che possiede un gusto narrativo fuori del comune. Un altro aspetto abbastanza nuovo per i Little Tragedies è poi un registro gioioso che prevale sulle atmosfere tragiche, come si può trovare ad esempio in “Hallelujah”, che mi ricorda i connazionali “Gorizont”, o come in “Christ” che trasuda un trionfante ottimismo. Molto bello il ritrovato uso del sassofono in “The winter of life”, che ricorda i toni passionali di “The sixth sense”, ma anche della tromba di Alexander Mamontov nella già citata “Old Conquistador” che arricchisce la timbrica della musica. Il brano presenta ritmi ossessivi e martellanti, riff potenti di chitarra a cui si intrecciano le tastiere ed il piano in tante ricche volute, in un crescendo continuo di fuochi artificiali. Ma vi sono tracce anche più dilatate, come la ballad “Poet’s House” dai toni intimistici, con gli arpeggi delicati della chitarra acustica in evidenza. Non c’è un momento che non sia accuratamente studiato e ponderato in questo album che non lascia mai il tempo per tirare il fiato e non stupisce più di tanto la scelta di chiuderlo con un pezzo imponente e lungo (12 minuti) come “Too Late”, molto articolato ma allo stesso tempo assolutamente non stancante. Se amate la musica virtuosa ed organistica, non priva di eccessi, qui potete trovare tutto questo in una versione compositivamente inattaccabile e ricca di belle melodie e barocchismi. Un disco assolutamente privo di modestia e a buon diritto, oserei dire, sfrontato e senza compromessi. I Little Tragedies al loro massimo potenziale.
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