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Dal 2006 Gerald Krampl si è riaffacciato alla musica con un radicale cambiamento. Lasciate definitivamente le tematiche di progressive sinfonico, perfettamente analizzate con Kyrie Eleison a metà anni ’70, la tastiera è l’unico elemento rimasto a collegare quei tempi con questi tempi e ogni tasto è rimasto ad animare il suo odierno concetto di musica. Un concetto che si è fatto minimale e nel quale quello che non viene detto è più forte quello che viene detto, grazie ad un sapiente uso dell’atmosfera immaginifica e di gran trasporto della mente. E’ musica che vuole tendere a rilassare e per fare ciò si muove con pacatezza, senza aggiungere nulla che non sia effettivamente indispensabile. Quindi al suo pianoforte, protagonista rigoroso, senza esuberi, senza mascalzonate, si affiancano la viola e il violino dell’artista classico Peter Sagaischek, avviluppando gli spazi con un ulteriori veli di variabile melodia. Questa combinazione riesce ad imporre all’andamento del lavoro risvolti di nobile e serena malinconia, gli permette di toccare le corde della nostalgia e dell’evasione del pensiero, per viaggi mentali indipendenti dall’attenzione più o meno ferma alla musica stessa. Il tutto si pone in quell’area indefinibile dove la musica non traccia confini e riesce, con piccoli balzi, con leggeri passi, spesso in punta di piedi a passare tra temi classici, moderni, minimalisti e cameristici, sempre con una fortissima attenzione all’atto compositivo, tale che non sia mai fine a se stesso e mai lasciato ad un caso disperso. Ingressi e uscite dei temi tracciati dagli archi, arrivano e scompaiono, rincorrono i tasti bianchi e neri incontrandosi, per brevi o lunghi istanti, in duetti di reale completamento. Sono dodici brevi momenti di incontro intorno ai tre minuti ciascuno, registrati tra il 2011 e il 2012. Le note del libretto indicano derivare l’ispirazione di scrittura di questi temi da brevi immagini trasformate in musica. Arie e temi dove pathos e melodia vincono in maniera determinante su tutti quegli elementi che parrebbero mancare ad un disco portato su queste pagine. Non ci sono lungaggini di sorta tutto è conciso e ristretto, le idee arrivano e se ne vanno in pochi momenti, senza spreco, ma anche senza statica fermezza, così tutto sembra dondolare al vento. Di questi dodici flash sonori voglio ricordare quello di apertura “Flight of the gondolfiers” ispirata dai primi voli in pallone dei fratelli Montgolfier, quello di solo pianoforte “Beyond the horizon” il cui tema scaturisce dalla terra promessa e delle bugie collegate, “A walk in the park” contrappuntata da un mesto violino a ricordo di una passeggiata ad Hyde Park e dagli edifici vittoriani del parco londinese. Ma davvero ogni brano ha risvolti notevoli, forse semplici per chi preferisce ipotizzare la musica cameristica non svincolabile dall’avanguardia. Certo più vicina a chi voglia appiccicarsi ad un vetro in una giornata grigia e piovosa, rispetto a chi voglia ostacoli cerebrali e musicali continui, ma – tutto sommato – una ricchezza melodica e di pathos sospeso che fa bene all’anima.
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