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ANEKDOTEN |
Until all the ghosts are gone |
Virta |
2015 |
SVE |
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Non riesco a credere che sia passato così tanto tempo dall'ultimo album degli Anekdoten: era il 2007 quando usciva “A Time of Day”, opera con alti standard ma che divise in due i fans, da una parte i soliti entusiasti e dall'altra gli insoddisfatti che avevano notato in quel disco alcuni alti e bassi e uno stile un po' incostante e a volte addirittura fiacco. Stavolta mi sento di dire che questa sesta fatica in studio metterà tutti d'accordo e tale sensazione si percepisce immediatamente, già dalle prime note. Il gruppo ha voluto curare molto le atmosfere globali creando un album avvolgente, lirico, in grado di generare sensazioni persistenti, che gioca molto sulle sfumature più che sui contrasti. E' un po' come passare una gomma da cancellare su un disegno a pastello: i colori si compenetrano fra loro, perdono i loro confini, si trasformano in un insieme pastoso e acquistano significato nel loro insieme. Ecco quindi i continui ed incessanti tappeti di Mellotron (lo suonano sia Anna Sofi Dahlberg che Nicklas Barker) che giocano in questo contesto un ruolo chiave, essi scivolano fluidi, si accavallano agli altri suoni, talvolta sembrano quasi abbracciarli ed emergono vigorosi seguendo i picchi emotivi dei brani. Altro punto strutturale fermo è rappresentato dalla sapiente chitarra di Nicklas Barker che a volte va ad intrecciare una trama di sostegno delicata, con tonalità acustiche, altre volte si elettrifica potenziando il sound che diviene più compatto e graffiante. A tal proposito proprio la traccia di apertura, “Shooting Star”, è quella più energica di tutte e dimostra una profonda ispirazione Frippiana, evidente dalle spinte chitarristiche in primis e dai mobili contrasti. Sembra quasi di essere tornati ai tempi di “Nucleus” ma questa percezione si dimostra, col passare del tempo, sempre più falsa. Una buona complicità nel creare un sound saturo e claustrofobico la fornisce qui l'ospite Per Wiberg con un organo cupo ed altero, qualcuno sarà tentato sicuramente di chiamare in causa gli Opeth ricordando che l'appena citato tastierista proviene proprio dalla loro line-up ma non dimentichiamo però che la sua presenza veniva registrata già nel lontano 1993 proprio nel disco di esordio degli Anekdoten, quello spettacolare “Vemod” che anticipava di un paio di anni l'esordio dei loro più tenebrosi connazionali. Quindi non fate certi paragoni, per favore, e capite bene chi ha influenzato chi. In realtà la mia percezione è che in questo album confluiscano un po' tutte le anime degli Anekdoten con richiami ad ampio raggio a tutta la discografia passata o forse, più semplicemente, la verità è che col tempo il gruppo ha raggiunto ormai un proprio inconfondibile linguaggio che va ben oltre i seppur ben riconoscibili modelli classici che lo hanno ispirato. “Get Out Alive”, la seconda traccia, svela, dopo l'incipit più rude, atmosfere decadenti e romantiche, è solcata da melodie dolci con fiumi di Mellotron dal bel registro di archi, il cantato ipnotico, atmosfere affabili e un mood che in qualche modo sembra aver risentito della lezione di Steven Wilson. Fra i brani più intensi mi sento invece di collocare “If It All Comes Down to You”, con le sue coltri di suoni ben amalgamate, dai tratti enigmatici e dai vaghi riflessi psichedelici. Estremamente affascinante sono le oniriche linee melodiche del flauto, suonate da Theo Travis che compare come ospite anche in un altro bellissimo brano, “Until All the Ghosts Are Gone” dove è presente anche Marty Wilson-Piper degli australiani The Church alle chitarre. In questo ultimo brano il flauto sembra fluttuare all’alito di una brezza pungente solcando un sound denso e a tratti lieve e sinistro, VanDerGraffiano. Più leggera e maggiormente incentrata sul cantato di Jan Erik Liljeström, esile e terso come al solito, è la centrale “Writing on the Wall” che mi ricorda più da vicino “Vemod”. La musica sa distendersi al punto giusto con melodie penetranti e ampie pause per poi stratificarsi nuovamente con tutti i suoi riverberi. “Our Days Are Numbered” chiude splendidamente l’album con atmosfere spettrali che ricordano un po’ quelle horror dei Morte Macabre ed un sound che torna a oscillare decisamente verso “Vemod”, con i suoi vaghi e ruvidi accenti folkish. Convincente è il drumming irrequieto di Peter Nordins e inquietanti sono gli interventi di Gustav Nygren al sax che si innestano in un finale catartico, pulsante e in crescendo. Energico all’inizio, dirompente alla fine, avvolgente in tutto il suo percorso musicale, questo album è davvero coinvolgente. Resta da capire se sia o no il migliore della discografia del gruppo ma questo esercizio lo lascio volentieri a voi.
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Jessica Attene
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