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Per certi gruppi inglesi di progressive, la devozione e la riverenza verso il pubblico italiano è dato di fatto. Più di una volta, Peter Hammill, alla fine dei concerti, promise al pubblico italiano di impararsi nuovamente i brani storici dei Van Der Graaf Generator, per saperli eseguire adeguatamente nei successivi tour. La promessa è stata, ancora una volta, mantenuta e, grazie ad essa, in questo tetro 2015, un piccolo dono confortante è arrivato per riscaldarci i cuori, oppressi da miriadi di notizie negative. Per via degli arrangiamenti sempre piuttosto complessi ed articolati, la dimensione live, per questa band, è sempre stata croce e delizia, specie in questo più recente periodo di adattamenti delle partiture per trio. In studio non c’è problema nel fronteggiare brani multitraccia, con Hammill che comodamente può inserire piano, chitarre, tastiere, voci e controvoci in maniera studiata e ricca a piacere. Sul palco è diverso, tutto e diretto e come dissero personaggi illustri: “Ciò che si vede, è”. Prova di questo ne fu lo spettacolare monumento che è Vital, con la scelta dell’essenzialità, della povertà, anche a costo di risultare grezzi e perdere ogni granello di quella grande raffinatezza dimostrata, invece e spesso, nei lavori in studio. Il trio Hammill/Banton/Evans è il monumento attuale, è il contenitore che non deve far rimpiangere nulla del passato e deve dimostrare che l’amore del pubblico è ricambiato in tutto e per tutto, e ci riescono, oh, se ci riescono. Quello in disamina è il volume deluxe (prego affinché si pronunci questa parola da italiani e non da inglesi), due sontuosi e lunghi CD, di quelli che ancora producono goduria nell’infilarli nel lettore. La scaletta è da brividi: la quantità di brani storici tirata fuori è da cardiopalma, spesso pescati dai lavori solisti di Hammill, sempre di grande levatura. Già l’attacco, affidato all’intera suite “Flight”, presente del succulento “A black box”, dà indice di quanto sia state studiate le scelte, basti pensare che la suite, per intero, fu eseguita live solo nel tour promozionale del disco nel 1981. Allora c’era Evans alla batteria, ma non Banton alle tastiere, quindi, di fatto è la primissima volta che l’esecuzione è proposta come Van Der Graaf Generator. Altri titoli si rincorrono nel desiderio di essere ascoltati prima degli altri, “Gog” brano tratto dalla carriera solista di Hammill e inciso nel 1974 per l’album “In Camera” e, soprattutto, l’altro pièce de résistance del primo volume, l’intera suite di “A plague of lighthouse-keepers”, mai eseguita dal vivo per intero e qui sviluppata in tutta la sua immensità. Hammill fatica, a tratti, ma cosa pretendere. Lui sa compensare: passa da falsetti a voci piene, da voci ruvide a pulite, da acuti impressionanti a vocalizzi della profondità dell’inferno e tutto per aggirare quelle poche note che, per età, non sarebbero più le sue. Trattiene oltre alle note, la vita stessa della sua musica il pulsare dello spartito è il pulsare del suo cuore, lo stesso che qualche hanno fa rischiò di spaccarsi in due. E, in ogni caso, erano anni che non si sentiva un Hammill così in forma e così poderosamente “dentro” ai brani. Il secondo volume è altrettanto grande, la sequenza dei brani è mozzafiato. Si avvicendano le storiche “Scorched Earth”, “Meurglys III”, “Man-erg” in una versione davvero spettacolare e scoppiettante e con chiusura affidata alla minisuite di “Still life”, “Child like faith in childhood's end”. Non sfigurano, pur risultando un po’ secondari, i brani di più recente composizione, brani che presi singolarmente hanno il loro forte perché, ma inseriti in una scaletta con protagonisti di maggior spessore storico, tendono un po’ a sfiorire. Ottime comunque, ad esempio la lunga “Over The Hill” e l’intricatissima e potente “Interference patterns”. Quello che Hammill fa per l’intero lavoro, è qualcosa di davvero speciale: ci sono dosi di lirismo e potenza da far tremare il palco. Si attraversano mari emozionali sbattuti da venti viscerali, ma che sanno essere anche fragili e impalpabili come fili. I brividi lungo la schiena scorrono come i rami del delta del Nilo e non c’è momento il cui l’espressività venga a mancare. Banton, nel suo essere funambolo tra organo, basso e pedaliere di bassi, è in un continuo impegno, intento a riempire ogni minimo anfratto lasciato dal leader. Evans è una meraviglia e lascia stupefatti per quanto un quasi settantenne possa avere ancora un tiro e una precisione di questa forza e classe e in apparente continuo miglioramento. E’ difficile rimanere freddi e pacati commentatori di fronte ad una band che, per propria natura e per propria capacità, riesce ad attirare su di sé aggettivi positivi a profusione. La loro grandezza è tale da trascendere ogni trascorrere di tempo e ogni idea possibile su progressive rock o quel che si vuole. Tanto loro sono qui e il loro tempo, per fortuna, è il nostro tempo.
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