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ALL TRAPS ON EARTH |
A drop of light |
AMS Records |
2018 |
SVE |
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“Sentì che la paura si insinuava nuovamente in lui; cercò di allontanarla, ed essa si allontanò, ma non del tutto, e rimase in agguato alle soglie della sua mente”. All'inizio “A Drop of Light” era una semplice linea disegnata dal Fender Rhodes di Johan Brand, tastierista e bassista degli Änglagård meglio noto agli storici fan come Johan Högberg (il nuovo cognome figura per la prima volta nel 1994 su “Epilog” nell'elenco degli ospiti). Ma poi, continuando a suonarci attorno, si è trasformata nel seme da cui è germogliato questo nuovo album, il primo di un progetto che coinvolge anche il tastierista Thomas Johnson, proveniente dal già citato ed acclamato gruppo svedese, il batterista Erik Hammarström dei Katzen Kapell, che ritroviamo negli Änglagård a partire dal 2012, anno di pubblicazione del live “Prog På Svenska” ed infine Miranda, figlia dello stesso Brand. I sentimenti profondamente umani che angosciano il robot del racconto di Clifford Simak “Tutte le trappole della terra” sono probabilmente gli stessi che attanaglieranno la mente dell'ascoltatore. La tensione liberata fin dal brano di apertura, che si intitola appunto “All Traps on Earth”, è tangibile e si materializza grazie a forme e colori musicali sicuramente familiari a chi decide di approcciarsi a quest’opera che ci rimanda direttamente, senza falsi pudori, al celebre gruppo madre. Le somiglianze sono tali che potreste benissimo cancellare “All Traps on Earth” sulla copertina del disco e scrivere Änglagård e nessuno avrebbe molto in contrario, a parte i detentori dei diritti d'autore, immagino. Alla formula che ben conosciamo, e che ci riporta direttamente ai fasti di “Hybris” e in parte di “Epilog”, poco altro viene aggiunto, come ad esempio la voce di Miranda, con i suoi cupi vocalizzi, che in realtà si limitano a pochi interventi mirati, concentrati soprattutto nella prima traccia. Le somiglianze sono talvolta così forti che sfiorano il plagio ed è così che, mentre scorre la già citata “All Traps on Earth”, ti ritrovi a pensare a “Jordrök”, anche se l'architettura ritmica di questo novello lavoro è sicuramente più rigida rispetto agli skill di Mattiass Olsson il cui lavoro percussivo rimane, a mio giudizio, insuperato. Potreste dire che vi sono riferimenti a King Crimson e VdGG o meglio agli americani Cathedral… ma facciamo prima a dire Änglagård, e che nessuno abbia niente da obiettare a riguardo. Fare paragoni col modello appena citato non lo trovo sconveniente anche perché è il gruppo stesso a porgerci questa arma con i suoi continui déjà senti ed è impossibile approcciarsi a questa musica spogli da ogni condizionamento, a meno che il vostro orecchio non sia del tutto vergine in materia di prog svedese e questo sarebbe davvero tutto un altro discorso. Nessuna sorpresa quindi nel ritrovarci fra le mani il tipo di album che ci saremmo aspettati semplicemente leggendo la line-up. Ciò potrebbe rivelarsi motivo di grosso rammarico per chi, come me, avrebbe meglio apprezzato qualcosa di più avventuroso o magari sperava che le eleganti inflessioni jazz che appena si scorgono in “Magnetic Warning” prendessero il largo verso nuovi orizzonti anziché arenarsi poco lontano dalla riva. Ma veniamo ai punti di forza di questo album che non vorrei passassero in secondo piano, soffocati dalle mie aspettative. L’opera ha un aspetto massiccio e poggia su 4 pezzi di lungo minutaggio (dai 13 ai 18 minuti) ai quali si aggiunge una laconica “First Step” di soli due minuti. Massiccio è l’uso degli amati synth fra i quali spiccano ovviamente strati e strati di Mellotron, presente in due diversi esemplari in un corredo strumentale decisamente ricco. Il contributo di ospiti al flauto, clarinetto, flicorno, tromba e al sax dona un tocco cameristico a composizioni imponenti e cupe che fanno leva su intrecci di notevole complessità. Talvolta le fragranze sonore si stemperano in ambientazioni dal sapore psichedelico mentre altre volte prevalgono brumose nuance dal sapore folk o ancora sceneggiature dai tratti horror o sci-fi e tutto si gioca su oscuri equilibri musicali, talora forse un po’ traballanti. Traspare l’ansia di sfoggiare partiture intricate ma non mancano momenti in cui si preferisce lasciare spazio alle atmosfere, alle linee melodiche, ai sentimenti. Trovo di particolare interesse in questo senso la traccia conclusiva, “Bortglömda Gårdar”, l’unica con definite linee vocali interpretate da Johan Brand con il contributo di Miranda. Il pezzo, che Brand ha costruito a partire da sequenze improvvisate al Chamberlin, si giova di melodie accattivanti, con sequenze strumentali di ampio respiro e il canto aiuta l’ascoltatore a sintonizzarsi sull’emotività di un brano drammatico e struggente. Lo sforzo compositivo, la cura riposta nella scelta delle colorazioni sonore, la ricerca di arrangiamenti sovrapposti e complessi, tutto questo fa intuire quanto a lungo questo album sia stato studiato e meditato e non stupisce apprendere che la sua realizzazione abbia richiesto cinque lunghi anni per essere portata a termine. Ciò merita sicuramente rispetto ed il risultato, seppure perfettibile e prono ad alcune critiche, è non solo degno di nota ma anche gradevole all’ascolto. Mi pare infine chiaro che non possiamo cambiare ciò che abbiamo con ciò che avremmo voluto e quello che ci rimane è comunque qualcosa che potrebbe dignitosamente collocarsi nella discografia ufficiale degli Änglagård, direi al terzo posto, dopo “Epilog” e prima di “Viljans öga”.
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Jessica Attene
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