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Riecco i Syndone di Nick Comoglio con il settimo disco in carriera, ormai appuntamento regolarissimo del progressive nostrano. E rieccoli ancora con il formato concept album, che evidentemente si addice molto all’idea musicale dell’autore. Per l’occasione il tema è indirizzato al mondo femminile, maltrattato, ingiuriato e colpito dall’ottusa misoginia nel corso della storia e, questa volta, non si tratta solo di musica tout court ma anche di uno spettacolo teatrale, ovviamente, con lo stesso nome. Eccezionale, per aspetto tecnico e musicale, il parterre dei partecipanti e degli ospiti, confermata la struttura della band che oltre allo tastiere dello stesso Comoglio vede il vocalist Riccardo Ruggeri, la percussionista Marta Caldara, anche agli idiofoni, il batterista Martino Malacrida, il bassista Maurino Dallacqua e il secondo tastierista Gigi Rivetti, presente in un solo brano. Mentre tra gli ospiti troviamo nomi di assoluto rilievo e, tra gli altri, Luigi Venegoni, Vittorio De Scalzi, Francesco Zago e Viola Nocenzi. Avvio strumentale per l’opera, con "Medea”, nel quale si accavallano temi e sonorità varie e all’aspetto principale del brano che punta ad un jazz rock formale, si distaccano strappi carichi del groove della fusion e parti tastieristiche che rimandano direttamente al grandissimo Banco. Ma è solo con la successiva “Red shoes” che si entra nel tessuto narrativo del concept. Si tratta di un brano prevalentemente hard rock, di ispirazione Led Zeppelin, sul quale Ruggeri rotola espressivo e si lascia andare persino a qualche citazione di Plant, non mancano però intermezzi più classicheggianti e un notevolissimo synth solo. Lo sviluppo si fa mano a mano vario e interessante, i brani si susseguono generando un certo senso di fretta per la forte curiosità di vedere a che punto si arriva e, per contro, una voglia che tutto duri il più possibile. E allora arriva lo splendido duetto vocale tra Ruggeri e la bravissima Nocenzi in “Evelyn”, arriva un avvio strumentale da urlo con la title track “Mysoginia” dominata da un poderoso assolo al synth e dal coro dei Piccoli Cantori di Torino. Peccato la seconda parte vocale, per fortuna breve, con l’uso del vocoder, apparecchio che decisamente non amo. Arrivano intrecci coloratissimi, tecnicamente perfetti e godibili fino all’ultima nota ad esempio con la narrazione del dramma di “Caterina” ispirato dalle traversie della De Medici o con “No sin” a parere mio il miglior brano dell’album. Grazie ad voce sempre molto presente e di qualità e all’intreccio elettroacustico delle partiture, in un lampo si transita attraverso impressioni hard rock, progressive, rock blues, fusion, classiche e teatrali assieme e da un momento all’altro sembra di essere sul palco di un teatro degli anni d’oro dell’opera e venire, quasi istantaneamente, catapultati ad un concerto rock. Credo che al di là della forza musicale, innegabile e ben più che evidente, la grande peculiarità di questo disco sia la sua capacità di cambiare repentinamente situazione e i piccoli intermezzi, i piccoli strappi sonori che collegano movimenti più ampi, siano caratteristica imprescindibile per comprendere il concept. Certamente tra i migliori lavori di quest’anno, sarebbe un peccato e assolutamente sbagliato che venisse relegato al solo mondo progressive: il suo respiro ampio e multiforme e tutte le sue caratteristiche di apertura spero ne facciano un’opera per un pubblico ben maggiore.
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