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A ormai ventiquattro anni dalla fondazione e a ventidue dalla pubblicazione del primo disco, Black Widow ristampa l’ormai storico esordio del Segno Del Comando. È passato parecchio tempo ma il gruppo di Diego Banchero ha attraversato tre decadi e si appresta, si spera con nuovi lavori, ad affrontare la quarta. Nel frattempo il fondatore, bassista e compositore è rimasto sempre alla guida mettendo in pausa (o seppellendo, tanto per restare in tema) il progetto per oltre dieci anni dopo l’ingresso nei duemila. In quattro album, con l’ultimo risalente al 2018, l’idea di fondo e le tematiche non sono cambiate. L’esplorazione di suoni oscuri, il desiderio di avventurarsi nei meandri delle suggestioni di un’estetica horror all’italiana decisamente vintage (la nascita è il nome del gruppo hanno origine in uno sceneggiato a tema horror/fantastico andato in onda sulla Rai negli anni settanta e nel romanzo scritto anni dopo) è ancora il traino per la creazione di un hard progressive accompagnato a testi ricercati e definibile con una sola parola come “dark”. A paragone con gli ultimi e recenti album, il suono di questo esordio è più grezzo e meno “laccato”, sofferente di una produzione non eccezionale che consente comunque di apprezzare la classe evidente dei musicisti. Lo stile di Banchero è ben rappresentato dal brano manifesto “Il segno del comando”, che in dieci minuti assimila e amplia le esperienze musicali dei Goblin, di Antonius Rex, dei Devil Doll e di altri protagonisti del prog italiano creando un proprio riconoscibile marchio di fabbrica fatto di organi a canne, chitarre in overdrive, riff hard rock, varietà ritmica, testi e cantato lugubri ed epici. C’è dell’altro, ovviamente, sparso in quasi un’ora di musica multiforme (compresa una bonus track di sei minuti abbondanti), tra melodie dolci e malinconiche, metal,intermezzi jazz e fusion, arrangiamenti funk, assoli di strumenti acustici ed elettrici, nenie vocali ossessive, qualche sperimentazione e un pizzico di caos. La ristampa di “Il segno del comando” permette di chiudere il cerchio su un progetto che ha trovato in passato e in tempi recenti un buon numero di estimatori, ed è un mezzo per conoscere un modo di intendere la musica che in Italia ha fatto storia. Il disco fa parte di questa storia, che sarebbe proseguita qualche tempo dopo con “Der golem” prima della lunga pausa. Riscoprire questa musica dopo tanti anni, esplorarne i meandri oscuri e rimanerne affascinati è un’esperienza che vale la pena provare.
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