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Il quinto lavoro in studio per la band di Oslo giunge a quattro anni di distanza dal precedente “Disconnected”, periodo che vide però la pubblicazione del primo album solista del chitarrista Bjorn Riis, dallo stile non troppo dissimile da quello della band madre, ossia un rock dalle tinte post-psichedeliche riconducibile a quanto i Porcupine Tree proponevano negli anni di “The sky moves sideways” o “Signify”, tenendo sempre presenti i Pink Floyd di “The division bell”. Le note che accompagnano il promo parlano di canzoni ispirate dalla riscoperta dell’elettronica anni ’80, dalla new wave e dalle colonne sonore: se è vero che possiamo rintracciare alcune di queste influenze (soprattutto la prima, nella scelta di certe timbriche), la continuità con quanto proposto fino ad oggi è garantita, nel bene e nel male. Dal punto di vista concettuale, l’album racconta la storia di un uomo che si allontana dalla sua famiglia per inseguire un futuro ignoto, evidenziando il contrasto tra la disperata lotta personale per la sopravvivenza e l’osservazione a debita distanza di da parte di chi detiene il potere. La band si configura stavolta come un trio, avendo perso nel frattempo i servigi del bassista Anders Hovdan e del tastierista Jørgen Grüner-Hagen. Le tastiere sono appannaggio del vocalist Tostrup e di Riis e per quanto onnipresenti, non bisogna immaginare un loro ruolo solistico, bensì costituiscono lo sfondo su cui voce e chitarra intessono le loro melodie. “Machines and men” apre il lavoro in maniera lenta ed ipnotica, non senza accelerazioni controllate; la voce di Asle Tostrup è perfetta per queste atmosfere malinconiche, il basso pulsante di Kristian Hultrgren degli Wobbler (anche coautore di alcuni brani) aggiunge organicità ad un suono altrimenti fin troppo levigato e condito da sequenze ritmiche e samples, la chitarra di Bjorn Riis esplode infine in un solo dal sapore floydiano, ma anche i Riverside sono dietro l’angolo; il lungo brano è costruito per addizioni e sfocia in un finale energetico, pur denotando una certa monotonia di fondo. La prima parte della title track “distribuita” è un brano strumentale breve, lento e senza sorprese, quasi fosse una coda del precedente. “Into the unknown” si apre ancora con una sequenza di synth, stavolta quasi in stile tardi Tangerine Dream, ma si capisce presto che la protagonista sarà la voce di Asle, adagiata su un backdrop atmosferico, finché qualche arioso accordo di chitarra non strizza l’occhio a brani come “Coming back to life” o “Take it back” degli ultimi Pink Floyd (ancora loro), il tutto coronato dal solito pregevole solo di Bjorn, in tutto e per tutto conforme al sound che ha reso famoso Gilmour, dal fraseggio al tono agli effetti. Personalmente, trovo che il risultato finale sia tanto piacevole alle orecchie quanto già sentito… ma come si è detto in passato a proposito degli Airbag, ben pochi sanno rievocare certi suoni accompagnandoli (giustificandoli?) con una scrittura di livello eccellente. “Sunsets” vede in veste di special guest il chitarrista Ole Michael Bjørndal (Oak, Gentle Knife) e si apre in rottura con i brani precedenti: basso e batteria (ricordiamo il terzo membro fondatore, Henrik Bergam Fossum) in tempi dispari dominano la scena fino a che l’entrata della voce e degli altri strumenti portano il tutto verso lidi battuti dagli ultimi Anathema, addirittura con una rara, breve sezione di synth solista. Essendo uno degli episodi più movimentati, spezza con successo la funerea atmosfera che sin qui aveva pervaso il disco. “A day at the beach (part 2)”: esordisce ancora in odore di synth-wave anni ’80, ma più tardi si rivela un pretesto per consentire a Bjorn di sfoggiare ciò di cui è più capace, grazie alla sua chitarra liquida: pensate a brani come “Marooned” o “Terminal frost” e non sarete lontani da quanto proposto. “Megalomaniac”, infine, è un altro brano dall’incipit malinconico, la cui lunghezza gli permette però di essere rivitalizzato da interventi heavy da parte di una chitarra elettrica stavolta più sporca che, scrollandosi di dosso le similitudini con altri solisti illustri, rivela la personalità di Riis, che sarebbe altrimenti ingiusto qualificare come un imitatore: stavolta ascoltiamo influenze di rock alternativo (d’altronde il loro monicker è preso in prestito dai Radiohead), feedback ed anche... rabbia, prima che lo svolgimento circolare del brano lo faccia morire sullo stesso arpeggio d’apertura. Non saprei dire se abbiamo a che fare con il migliore album degli Airbag, certamente si tratta di un lavoro ben ponderato e senza riempitivi, grazie anche alla durata contenuta (48 minuti) e costituisce un ascolto appagante per chi è in cerca di rock atmosferico di classe. Continuo a credere che ci sia ancora margine di miglioramento sul fronte della personalità (ed apprezzerei una minore uniformità nell’andamento dei brani), ma dopo tredici anni dall’EP d’esordio è ormai innegabile che i nostri norvegesi si siano ritagliati un meritato spazio tra gli appassionati anche più esigenti. Aggiungo che grazie all’eccellente lavoro di produzione da parte della band stessa, coadiuvata da Vegard Sleipnes e di masterizzazione (Jacob Holm-Lupo, il deus ex machina dietro White Willow, The Opium Cartel e Telepath), la qualità sonora dell’album risulta certamente sopra la media.
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