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Quinto album (contando quattro full-length ed un EP) per il co-fondatore, songwriter e chitarrista dei norvegesi Airbag, presente anche nelle collaborazioni con Opium Cartel, Oak e Marco Ragni. Bjørn non si tira indietro e qui si cimenta pure alla voce e ad altri strumenti, comunque coadiuvato da colleghi musicisti tipo Henrik Bergan Fossum (Airbag), Kristian Hultgren (Wobbler), Simen Valldal Johannessen (Oak) e Mimmi Tamba. Un’uscita che a livello promozionale viene consigliata ai fans di Pink Floyd, Porcupine Tree e Marillion, non confermandosi però un album prog nel vero senso del termine. Come del resto non lo erano più, da un determinato momento in poi, quelli di Steven Wilson e soci, incentrati più su qualcosa che poteva anche essere definito alternative, visti i confini così ampi del genere in questione. Di sicuro, anche qui vi sono quegli effetti da “atmosfera rarefatta” tipicamente nordica, che vorrebbe ricreare situazioni di algido romanticismo e disillusa contemplazione, rientrando prima o poi in ambientazioni definite post-qualchecosa (ognuno ci metta ciò che preferisce). C’è però da dire che il nuovo lavoro è stato ispirato dall’Inferno dantesco e le intenzioni dell’autore scandinavo, fin dall’inizio, erano quelle di provocare nell’ascoltatore emozioni sia di speranza che di ansia, in buona parte riuscendoci. L’iniziale “Run” è un preludio che ricrea la situazione musicale sopra descritta, dove comunque emerge la chitarra acustica, limpida, spazzata poi via da una fase dura e concitata, che sembra preludio della classica sfuriata chitarristica liberatoria in chiave solista… che però di fatto non ha luogo, lasciando un senso di incompiutezza assoluta. Va diversamente con gli oltre undici minuti di “Lay Me Down”, sicuramente più poetici e allo stesso tempo concreti, nonostante l’evidente lunghezza del brano. Questo perché gli intermezzi strumentali si alternano bene alle parti cantate, consentendo a Riis di poter spaziare con le sue corde grazie ai chiari riferimenti Floydiani (con tutti i seguenti emulatori), a loro volte alternati a variazioni nettamente più dure. Certo, magari la traccia poteva essere anche più breve, vista la pausa che ci si prende (sicuramente per ragioni compositive) attorno al sesto minuto per poi ricominciare dopo l’ottavo, sciorinando nuovamente altre note. “The Siren” è una delicata ballad inserita in quel particolare contesto romantico di cui si parlava prima, ben strutturata sull’esile architettura voce-chitarra acustica-pianoforte, lasciando che la chitarra elettrica ogni tanto intervenga a ravvivare quelli che sono comunque sette minuti e mezzo; il tributo a David Gilmour viene ovviamente eseguito con la dovuta professionalità, lasciando il finale ai tasti d’avorio. “Every Second Evdery Hour” è la più lunga delle sei composizioni presenti, superando il tredici minuti; l’algida contemplazione nordica pseudo-romantica di cui sopra qui viene espressa in tutti i suoi stereotipi, fin dalla voce sottile e volutamente stentata, per essere poi trasmutata con effetti particolari che la facciano suonare elettronica ed in secondo piano rispetto agli strumenti. Occorre però riconoscere che il nostro continua ad architettare bene, perché le fasi strumentali danno vigore a tutto il contesto, pur mantenendo il senso di atmosfera. Anche qui, poco dopo il quinto minuto viene registrata una pausa, ma la tensione rimane vibrante e si riprende a breve. Ben concepiti i ritmi del basso, che fanno da perfetto collante tra le variazioni repentine, su cui aleggiano sempre gli effetti dettati dai sintetizzatori. “Descending”, come da titolo, è una discesa lenta ed inesorabile, che per un paio di minuti scivola accompagnata dalla chitarra acustica e poi diviene di colpo intensa ed impegnativa, per concludersi come era cominciata. Una fase di passaggio, preludio alla conclusiva title-track, sullo stile neo-prog (non certo allegro) della band madre di Riis. È probabilmente il momento in cui tutti gli elementi risultano meglio equilibrati, tanto nelle parti vocali giocate sul maschile-femminile che in quelle strumentali, dove le esecuzioni soliste di Bjørn suonano intense, intervallate da altre che ricreano un insinuante mistero. Complessivamente, questo nuovo lavoro non è affatto male. Una cinquantina di minuti concepiti, suonati e prodotti con raziocinio, il cui intento è anche quello di ricreare in maniera studiata delle emozioni. Un buon esperimento, per quanto possa apparire contraddittoria l’idea di partenza. Certo, se la valvola emozionale ad un certo punto riuscisse ad essere completamente aperta, sarebbe sicuramente meglio. Può apparire scontato, ma in realtà non lo è poi così tanto.
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