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Dove eravamo rimasti? Avevamo lasciato la mitica formazione ungherese alle prese con un gioiellino come “Martian chronicles 2”, che pur non raggiungendo le vette toccate con l’esordio del 1984 e con il seguente doppio “1990”, rinverdiva bene i fasti di uno stile a cui molti appassionati di progressive rock sono legati. A cinque anni di distanza da quel lavoro i Solaris provano a fare un altro bis, puntando sulla seconda parte di “Nostradamus”, concept giŕ proposto con il ritorno sulle scene negli anni ’90. Similmente a quel disco, anche “Nostradamus 2.0 – Returnity”, non convince del tutto, mostrando sia ottime intuizioni che scelte di rottura che lasciano non poche perplessitŕ. L’album č incentrato sulla lunga suite di trentaquattro minuti intitolata “Returnity (Return to eternity)” e suddivisa in sei parti. La partenza č affidata ad un elegante tema al piano elettrico, seguito da un canto femminile in latino, evocativo e dai connotati vagamente folk. Dopo poco piů di un minuto l’entrata della sezione ritmica e i cori fanno diventare la musica molto maestosa. Il flauto di Attila Kollar spinge poi sulle coordinate piů classiche dei Solaris, ma superati i tre minuti una svolta non esattamente prevista, con una spinta forte sul versante heavy-prog, sorprende in maniera non esattamente positiva. Come ogni suite che si rispetti, anche questa prosegue tra numerosi cambi di tempo e di atmosfera, ai quali va aggiunta l’alternanza tra voce femminile, maschile e coro. Sebbene tutto scorra in maniera fluida, la qualitŕ resta purtroppo altalenante. Quando dialogano le tastiere e il flauto č sempre un bel sentire, con rimandi stilistici al classico rock sinfonico tecnologico della band e qualche brivido dietro la schiena si avverte. In altri frangenti, tuttavia, la chitarra appare troppo ruvida e stride un po’ nel contesto e se si pensa al sound “storico” dei Solaris. La costante della composizione č un mood misterioso e un po’ sinistro che si avverte per tutta la sua durata. Oltre “Returnity (Return to infinity)” sono presenti altri tre brani brevi (nessuno tocca i quattro minuti), strumentali. Molto gradevoli “Double helix” e “Deep blue”, che contribuiscono a far crescere leggermente il livello qualitativo dell’album. “Radioscope”, invece, ricade nel tranello di sonoritŕ piů pesanti. Volendo dare un voto a “Nostradamus 2.0” potremmo generosamente assegnargli anche un 7, perché i lampi di (grande) classe non mancano affatto, ma analizzando nel complesso l’intero lavoro possiamo dire di non ritrovarci di fronte ai migliori Solaris
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