|
The D Project è la sigla curiosa dietro cui si cela Stephane Desbiens, musicista canadese che ha già all’attivo una certa esperienza in ambito prog per la sua presenza in gruppi quali Sense, Red Sand, Qwaarn e Melia. Con questo nuovo progetto prova a perseguire una carriera solistica che lo vede come protagonista principale attraverso la sua chitarra e la sua voce. Diciamo subito che Stephane evita qualsiasi tipo di esibizionismo, riuscendo a non incorrere in inutili sfoggi tecnici o a manie di protagonismo che avrebbero potuto essere solo deleterie. Anzi, sebbene la sua presenza in questo lavoro sia naturalmente evidente, si circonda di musicisti bravi (e noti al pubblico prog) che fanno la loro parte molto bene dando un tocco di classe in più all’opera. La partenza è affidata alla title-track, un brano dal gusto floydiano, che in quasi nove minuti alterna situazioni di grande atmosfera a ruggiti e intrecci strumentali che rimandano ad “Animals” e al new-prog. La seconda traccia, “They come and grow”, è un bel brano di rock sinfonico duro e puro, pieno di contrasti derivanti dai continui sconvolgimenti di tempo e di suoni, arricchito,inoltre, dall’elegante presenza del violino. Si passa poi agli otto minuti di “Hide from the Sun”, dall’inizio acustico, sorta di ballata per chitarra, violino, voce, mellotron (a proposito, qui è presente il primo ospite di lusso, che risponde al nome di Tomas Bodin, keyboards-man dei Flower Kings) e dolci melodie, che poi si vivacizza con un susseguirsi di emozioni dettate da un guitar-solo, da vocalizzi femminili e da raffinati momenti tastieristici, fino all’esplosione sinfonica degli ultimi due minuti. Ci sono poi due brani più brevi, “What is done is done” e “End of the recess” (qui alle tastiere troviamo Martin Orford degli IQ); il primo, abbastanza robusto, sfiora il prog-metal; il secondo, invece, è molto più accattivante nei suoi toni quieti che sfociano nella sensazione di revival dettata dall’assolo di moog. “September solitude” è una composizione solare di dieci minuti, con tutti i crismi del rock sinfonico caro a Yes o, più recentemente Flower Kings (non sarà un caso che anche qui suona Bodin). Conclude “That’s life”, con Fred Schendel dei Glass Hammer, brano in cui si ritorna ad una certa aggressività, che si alterna comunque a momenti più pacati. Che altro dire? Produzione limpida; un video come bonus track; tanta professionalità… Direi che i motivi per prendere in considerazione l’acquisto di un lavoro simile, anche se non rappresenta il massimo dell’originalità e se si avverte qualche ruffianeria qua e là, ci sono.
|