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ALLAN HOLDSWORTH Flat tire: Music for a non-existent movie Megazoidal Records 2001 (Moonjune Records 2013) UK

La statunitense Moonjune Records, dopo il difficile “Hard hat area” e il bello “None too soon” (in compagnia del pianista Gordon Beck, col quale venivano ripresi dei brani jazz), a distanza di un anno ristampa un altro album del famoso Allan Holdsworth. Più precisamente, l’undicesimo. “Flat tire: Music for a non-existent movie” era stato pubblicato nel 2001 dalla Megazoidal, per poi essere ristampato già una prima volta nel 2007 dalla Eidolon Efformation.
La Moonjune si è spesso fatta notare per la pubblicazione di titoli che potrebbero essere etichettati come “difficili” e la scelta delle varie ristampe risulta come una naturale conseguenza della propria attitudine discografica. La valutazione degli artisti – prima – e quella dei relativi album – poi –, rientra perciò in un quadro tanto complesso quanto preciso. L’Allan Holdsworth solista ha praticamente sempre pubblicato album in buona parte ostici, quasi mai propensi alle melodie orecchiabili, ma allo stesso tempo con un determinato tipo di soluzione mai fine a se stessa, che in modo assai paradossale non mira allo sfoggio virtuosistico tout-court, nonostante l’evidente difficoltà di esecuzione. Scelte che non ammettono compromessi e che non sono state per niente sinonimo di grandi vendite, anche se dai colleghi sono sempre giunte lodi sperticate. Tornando alla scelta della ristampa, era quasi scontato che prima o poi dovesse toccare al tanto controverso “Flat tire…”, composto dall’autore dopo un drammatico divorzio e delle esperienze personali assai dolorose. Dire che l’umore di Holdsworth in quel periodo fosse sotto i tacchi è usare quasi un eufemismo, anche perché la situazione economica non era affatto delle migliori. Vivendo in una casa in affitto, il chitarrista si trovava in evidenti ristrettezze che lo avevano portato a vendere la Trident mixing console e buona parte del suo equipaggiamento. Allo stesso tempo, però, in lui era sempre rimasto il desiderio di creare colonne sonore e l’ulteriore amarezza per non averne mai potuta avere la possibilità di realizzazione. Completamente da solo, quindi, decide di dare alla luce un album che fosse diverso da quanto composto fino ad allora e cioè un lavoro parecchio intimista, capace di richiamare delle immagini per lo più malinconiche. Il problema era che tra la roba venduta c’era pure l’Oberheim, un sintetizzatore capace di ricreare un ottimo suono per gli strumenti a corda, che con i Yamaha TX7 e TX816 (migliori per gli effetti percussivi) realizzava una eccellente combinazione. Evidentemente limitato, Allan basa tutto sul SynthAxe, un “controlla-MIDI” creato da Bill Aitken, Mike Dixon, and Tony Sedivy a metà anni ’80, col quale si potevano controllare fino a sei synth contemporaneamente. Un aggeggio già conosciuto dal chitarrista inglese, in quanto usato sui precedenti “Atavachron” e “Sand”. E a proposito di MIDI, una volta realizzato, il lavoro viene conservato sotto questa forma nel programma Steinberg Cubase, fino alla sua incisione. In effetti, la musica pare proprio quella proveniente da un computer… Un fattore, quest’ultimo, che per alcuni sarà spunto di discussioni creative, per altri, invece, sarà fonte di qualcosa di simile al tedio. Non a caso, il pezzo che a conclusione dell’ascolto si distingue maggiormente è l’iniziale “The Duplicate Man (intro)”, che in poco meno di due minuti mostra una chitarra autentica, capace di sviscerare un sincero turbamento interiore, con rumori sullo sfondo. Se l’ispirazione fosse stata tutta così bilanciata, se ne sarebbe potuto parlare in ben altro modo. Ma dopo i primi pezzi, dove si può anche pensare ad un certo fattore creativo, l’attenzione viene meno. Ogni strumento viene ricreato dall’autore col suo marchingegno; il problema è che tutto risulta tremendamente uniforme.
Su “Eeny Meeny” compare il bassista Dave Carpenter e l’interazione con uno strumentista autentico si sente. Questi tornerà su “Bo Beep”, ma in questo caso ne avrebbe anche potuto fare a meno. Non c’è poi molto da dire, anche se nelle lunghe “Snow Moon” e “Don’t you know” (pezzo di cui l’artista va particolarmente fiero) ci sono delle progressioni sintetizzate interessanti, che magari sarebbero potute essere sviluppate anche nelle restanti composizioni.
Basta poco per capire che Allan Holdsworth con questo lavoro si è a suo tempo confermato per quel che è sempre stato: un artista controverso, capace di essere tanto apprezzato quanto respinto. Ci sarà – come del resto c’è stato – chi parlerà di album atipico, creativo, che indaga in nuovi spazi musicali, da ascoltare con estrema attenzione. Può anche essere. Il consiglio, però, è di non farlo durante i caldi pomeriggi estivi. Potreste infatti addormentarvi e al risveglio dover ricominciare tutto daccapo.
La ristampa è dedicata alla memoria proprio del bassista Dave Carpenter, morto nel 2008 per un attacco cardiaco a soli 48 anni.


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Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

ALLAN HOLDSWORTH Hard hat area 1993 (2012 Moonjune) 
ALLAN HOLDSWORTH None too soon 1996 (Moonjune 2012) 
SOFT MACHINE Floating world live (1975) 2006 
SOFT MACHINE Switzerland 1974 2015 
SOFT WORKS Abracadabra 2003  

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