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E’ il 1974, i Soft Machine sono ormai nel pieno di quel periodo in cui hanno “assimilato” gli ultimi cambiamenti dovuti all’entrata di Allan Holdsworth in formazione. Sono pronti a immettere sul mercato “Bundles”, album che segnerà una nuova direzione, pur in diretta continuità con il discorso jazz-rock degli anni precedenti, portandolo però verso suoni inediti proprio grazie all’utilizzo della chitarra elettrica. Se una delle caratteristiche del gruppo nel passato recente era infatti stata l’assenza della sei corde è ora inevitabile che stravolga un po’ le cose l’entrata del chitarrista, subito integratosi con l’unico membro del nucleo originario della band, Mike Ratledge, e con gli altri ex Nucleus Karl Jenkins, Roy Babbington e John Marshall. Una bella testimonianza dell’affiatamento di questo quintetto giunge con la pubblicazione da parte della Cuneiform Records di “Switzerland 1974”, consistente in un cd e un DVD. Possiamo gustarci una prova maiuscola dei Soft Machine al festival di Montreux, ormai apertissimo ad ospitare quelle formazioni pronte a cavalcare l’onda del jazz-rock. E’ una performance che vede le attenzioni andare spesso e volentieri proprio verso Holdsworth, vero e proprio catalizzatore con il suo talento, capace di assoli mostruosi e di guidare brani di una certa complessità grazie ad un grande tasso tecnico, a partire dagli oltre sedici minuti iniziali della monumentale “Hazard profile”. Eppure non mancano i momenti in cui salgono alla ribalta gli altri musicisti: Babbington è mattatore assoluto in “Earling comedy”, con il suo basso che parte in sordina, per poi finire con le forti distorsioni elettriche dalle potenti scariche; Jenkins regala una brillante esecuzione di “Peff” grazie al suo intervento con l’oboe; non si fa attendere nemmeno un classico drums-solo, intitolato “LBO”. La voglia di sperimentare, inoltre, non manca mai, come dimostrano la breve improvvisazione “Lefty” (peccato che i tempi ristretti non abbiano permesso ai musicisti di prolungarsi più di tanto), o il duetto tra Ratledge e Marshall in “Joint”, in cui il primo caccia fuori i suoni più assurdi e disparati dal suo sintetizzatore AKS. Guardare i Soft Machine al lavoro è sempre un piacere, peccato che il documento video in alcuni (pochi) frangenti risenta un po’ del tempo trascorso e la qualità, quindi, non è sempre ottimale, nonostante l’eccellente lavoro di restauro che ha permesso comunque di ottenere standard notevoli. In “Switzerland 1974”, ad ogni modo, troviamo una band in stato di grazia, capace di deliziare il pubblico con un concerto in cui i musicisti toccano vertici impressionanti, in grado come sono di fare grandissime cose, sia quando prevale la componente rock, sia quando viene più a galla quella jazz. Non sorprende, quindi, che in questo periodo, i Soft Machine siano un punto di riferimento fondamentale della scena jazz-rock e che arrivino inviti anche prestigiosi come quello del Festival di Montreux.
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