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Tredicesima pubblicazione per il progetto del tastierista statunitense dalle chiare origini italiane Don Falcone, la seconda con il francese Cyrille “Clearlight” Verdeaux. Una realtà formata di volta in volta da una corposa pletora di musicisti, tutti orbitanti nell’ambito piuttosto esteso che va dallo space-rock all’ambient, comprendendo sfaccettature che toccano per forza di cose la psichedelia strumentale e forse anche accenni di new age. Quella degli Spirits Burning è una sigla rispolverata da Falcone nel 1996, dopo che egli stesso aveva militato in una band dal nome identico in quel di San Francisco, suonando basso e tastiere. I Clearlight, dal canto loro, sono la creatura dell’altro tastierista Verdeaux, il cui esordio risale addirittura al 1975. Di quest’ultimi sarebbe presente solo lo stesso Verdeaux, anche se – proprio come Falcone – il musicista transalpino ha collaborato con tantissimi musicisti, tra cui molti elementi dei Gong. Personaggi che fanno la propria comparsa anche qua, primo fra tutti il deceduto David Allen con registrazioni retrodatate, che lascia così una ulteriore testimonianza della sua lunghissima carriera musicale. L’ex leader dell’ensemble anglo-francese fa sentire la sua presenza nell’iniziale title-track, accompagnando il brano con la chitarra elettrica. Un gran bell’inizio, tanto pacato quanto elaborato, simile a certe trovate dell’incarnazione femminile chiamata Mother Gong, grazie soprattutto al violino di Jonathan Segel. Gli ospiti sono tantissimi e anche i brani risultano numerosi, ma i primi pezzi sono senza dubbio da menzionare: “Sun Sculptor & The Electrobilities” presenta la voce trasfigurata di Bridget Wishart, negli Hawkwind durante i primissimi anni ’90 e presente con lo stesso Falcone su “Bloodlines” (2009), a nome Spirits Burning & Bridget Wishart; segue “The Birth Of Belief”, impreziosita dal pianoforte di Verdaux e dal sax soprano di Ian East, autore di album solisti ed attualmente componente proprio dei Gong; occorre menzionare l’energica “Coffe For Coltrane”, stavolta con due volti noti come Theo Travis ai fiati e Albert Bouchard (Blue Oyster Cult) sia alla batteria che al piano, assieme al chitarrista anglo-iraniano Kavus Torabi, anch’egli componente dei nuovi Gong (Daevid Allen ha scelto personalmente i musicisti che, in formazione totalmente rinnovata, oggi continuano a creare nuova musica con il vecchio monicker). Altro pezzo da menzionare è “Mrs. Nooness”, ancora col violino di Segel e soprattutto con la vivacità della chitarra a dodici corde di Harry Williamson. Passata la trascurabile “The Old College Sky Is Where We Left It” con Steve Hillage alla chitarra (ma in quel minuto e ventotto secondi ci sarebbe potuto essere chiunque), “Fuel For The Gods” è un altro bel momento. Tredici minuti che vedono ancora una volta Verdaux molto convincente al pianoforte, dentro delle atmosfere bucoliche narrate dal flauto di Paul Booth che poi si trasformano in un incedere più incalzante (chitarre affidate a Williamson e al brasiliano Fabio Golfetti, ancora un nuovo componente dei Gong). “Black Squirrel At The Root Of The Staircase” è una valida alternativa psichedelica a quella fin troppo battuta dai cloni degli Ozric Tentacles, che non a caso vede alla chitarra Steve Bemand degli Hawkwind, oltre ad un altro ottimo lavoro al pianoforte che si sposa perfettamente con il contesto irreale, reso tale anche grazie ai fiati di David Newhouse dei The Muffins. “Déjà Vu”, con un gran lavoro ai sassofoni ad opera di Didier Malherbe – inutile dire con chi suonava –, ha il difetto di durare troppo poco, lasciando comunque il passo alla freschezza dì “La Rue Inconnue”, un sorta di trip allegro proveniente da fine anni ’60 ed immerso nell’effettistica spaziale contemporanea. Chiude “Roadmaps (The Other Way)”, ultima testimonianza cantata da Daevid Allen, a cui l’album viene dedicato. Si tratta complessivamente di un buon lavoro; un prog che non voglia essere per forza stereotipato può benissimo passare da queste strade, in cui si inseriscono elementi la cui somma va oltre le parti e crea qualcosa di differente, pur tenendo bene a mente quali siano tutte le componenti chiamate in causa. Una curiosità: a parte la traccia con Bouchard, non ve ne è nessun’altra in cui compaia la batteria. Incredibilmente, le soluzioni ritmiche riescono a far soprassedere su tale mancanza senza alcuna forzatura.
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