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JPL |
Le livre blanc |
Quadrifonic |
2017 |
FRA |
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Jean Pierre Louveton come candidato al titolo di “Mister Prog-rock” per la Francia? Chissà, potrebbe essere un nome papabile. Nove album in studio e due live con i Nemo (con cui si sconfina anche nel prog-metal), sfornando sempre musica di qualità, che magari colpiva favorevolmente soprattutto nei primi lavori, ma che non è mai scesa di livello; due pubblicazioni con i più convenzionali e duri Wolfspring, a cui vanno aggiunti sette album solisti editi sotto la sigla JPL. Il chitarrista e cantante transalpino è insomma uno che non sta con le mani in mano e suona continuamente, cercando sempre nuovi stimoli compositivi. Oscillante nei suoi vari progetti tra l’attitudine progressiva francese (che sarebbe riduttivo individuare solo negli Ange), il già citato prog-metal e partiture da guitar-hero, stavolta Louveton dà sfogo al suo essere eclettico e butta quasi tutto dentro, riuscendo comunque a non esagerare. Elemento di non poco conto, visto che sarebbe stato facile risultare pacchiano e stancante in un contesto simile. Il nuovo album del musicista francese è un dichiarato tributo alle atmosfere variegate che si possono ricavare nel prog e nel rock tout-court in generale, con brani che affrontano tematiche inerenti sia le religione che la società moderna, trasfigurate dall’immagine da vetrata sacra posta in copertina. La lingua francese non risulta ostentata e forzata come in altri casi, ma scivola perfettamente e accompagna quasi sempre nel migliore dei modi la metrica delle composizioni, così come il resto della produzione risulta limpida ed accurata, senza eccessi. “Un livre ouvert” si apre con una chitarra acustica che sembra narrare l’inizio di una favola, per poi virare verso un giro di accordi in stile quasi southern, a loro volta inquadrati subito in un contesto assolutamente prog. Gli strumenti si intrecciano e si sovrappongono con una certa naturalezza, quasi con discrezione, crescendo man mano di intensità. Un lavoro di insieme reso tale anche per la presenza di Guillame Fontaine e Jean Batiste Itier, rispettivamente pianista e batterista dei Nemo. Lavoro di squadra anche nei nove minuti e mezzo della seguente “L’ermite”, tra lievi accenni di soluzioni ad effetto e atmosfere, approccio sinfonico, durezza comunque smussata, con qualche rimando anche ai catalani Herba d’Hamelì. Dopo essersi concentrati maggiormente sulla chitarra, il cambiamento repentino che avviene dopo sette minuti porta ad un finale in crescendo ancora maggiore. Un Itier a livelli altissimi, grazie al quale – assieme agli intarsi di Fontaine – Louveton riesce a fare un autentico figurone. “Joker”, l’unico brano cantato in inglese, vede Steph Honde (Holywood Monsters) dietro al microfono; pezzo più duro, diretto, tra metal raffinato e poi “progressivizzato” da ritmiche un po’ funky. Riferimenti ai Deep Purple anni ’80 (le tastiere sono forse suonate dallo stesso Louvert?), senza però rinunciare nemmeno in questo caso ai cambiamenti di registro improvvisi, con tanto di percussioni. In questo caso ci si rifà senza alcun dubbio all’esperienza Wolfspring, da cui vien chiamato Ludovic Moro a dare man forte dietro le pelli. La voce di “Trompe la mort” è invece di Dominique Léonetti (Lazuli); l’incedere è simile al brano di apertura – risultando comunque piacevolissimo – e Luveton, oltre a destreggiarsi alle sei corde acustiche, fa la sua figura anche al basso. “L’étoile du nord” ha un attacco simile agli Iron Maiden più “misteriosi”, per poi aprirsi verso qualcosa di completamente diverso… e decisamente francofono. La lezione maideniana non viene del tutto abbandonata, ma i controtempi del reintegrato Itier permettono ancora una volta a Louveton di percorrere altre strade con le sue sei corde. Un momento di pausa con “Convoléances”, che presenta sonorità chitarristiche finali simil-Satriani, per poi passare all’aggressione (soprattutto nei testi, in cui vengono descritti gli effetti dei morbi) di “La peste et le choléra”; riff duri che si alternano a fasi riflessive, con il drumming deciso ad opera di Moro, chiamato sempre in causa durante questi momenti. La tecnica chitarristica è di non poco conto, smorzata subito dalla seconda sezione del brano, “L’antidote” (nelle note di copertina viene citato Ravi Shankar), che oltre ad un Louveton più meditativo mette in risalto le fasi soliste di basso ad opera di Sebastien Delestienne che chiudono in maniera pacata. Pacatezza con cui si aprono i dieci minuti di “Jehanne”, la quale si snoda per lo più nella parte strumentale, spesso solenne, dove – sempre in maniera molto composta – i musicisti si lasciano andare a sinfonismi e acrobazie varie (molte delle quali devono comunque qualcosa ai succitati ‘Maiden). E visto che oramai è la musica a dettare in toto le regole, chiude la strumentale title-track, lasciata alle orchestrazioni ben programmate e all’ottima chitarra del protagonista. Un bel dischetto, quest’ultimo a firma JPL. Potrebbe essere anche uno strumento eccellente per far avvicinare i neofiti a determinati generi musicali, magari senza “traumatizzarli” più di tanto. Risulta comunque un elemento di compagnia molto piacevole, da sentire magari di primo pomeriggio, quando si ha voglia di ascoltare qualcosa che non sia eccessivamente impegnativo ma allo stesso tempo abbastanza valido.
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Michele Merenda
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