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ELEPHANT9 |
Arrival of the new elder |
Rune Grammofon |
2021 |
NOR |
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Questo per gli Elephant9 è il sesto album in studio dal 2008, anno in cui esordirono con un entusiasmante “Dodovoodoo”. Da allora le uscite discografiche sono giunte con cadenza abbastanza regolare, sfoggiando standard qualitativi sempre elevati. Nel 2018, con “Greatest Show on Earth”, terminava la bellissima parentesi col chitarrista Reine Fiske, consumatasi nell’arco di tre album (due in studio e un live). Col ripristino dell’originale e compatta formazione in trio, guitar free, i musicisti di Oslo hanno continuato a stupirci, non perdendo un microgrammo in potenza, duttilità, fantasia e ricchezza compositiva rispetto a quella che poteva sembrare un’elettrizzante evoluzione musicale molto promettente per il futuro. In realtà con questo nuovo lavoro c’è un ritorno delle chitarre, affidate al bassista Nikolai Hængsle, ma la parte del leone continuano a farla sicuramente le tastiere del grande Ståle Storløkken, autore peraltro della quasi totalità dei brani qui presenti (uno solo, “Rite of Accension”, porta la firma di Hængsle). Gli Elephant9 rimangono una delle realtà più interessanti dal vivo nel panorama jazz prog attuale, come potete direttamente verificare ascoltando i due doppi live del 2019 “Psychedelic Backfire I” e “II”. Questa attitudine molto libera e basata su jam e improvvisazione è una caratteristica ben palpabile anche nelle produzioni in studio ma questa volta il trio, pur conservando il suo solito e magnetico groove, ha scelto delle soluzioni più strutturate e riflessive, facendo maggiore affidamento sulla fase compositiva. Ne derivano brani di respiro più ampio e quasi del tutto privi di quella spietatezza che spesso il gruppo dimostra sul palco, con le sue jam che ribollono di ritmi, dissonanze ed ossessioni. La sezione ritmica che, oltre al già citato bassista, comprende anche Torstein Lofthus alla batteria, è come sempre solida ed incredibilmente affiatata: una macchina da guerra perfetta e versatile in grado di sostenere un sound complesso ed articolato fatto di tonalità acide e di inebrianti umori psichedelici. Il Fender Rhodes viene utilizzato a profusione ma negli impasti sonori, incredibilmente tastieristici, potrete percepire perfettamente anche gli interventi dell’organo Hammond, del Mellotron come anche del synth olandese Eminent 310 o del pianoforte. La traccia di apertura, la title track, mostra subito un approccio soft con le sue colorazioni cosmiche e le morbide inflessioni jazzy. Ci trasporta in mondi lontani con la leggerezza e la velocità del pensiero. Le atmosfere sono rarefatte e le melodie stranianti ma delicate. “Rite of Accension” si presenta come uno jazz rock dal retrogusto etnico con un sottobosco ritmico preciso ed agitato e ci stupisce per la sua cupa sinfonicità e per quel magma psichedelico e psicotropo piacevolmente sofisticato e di grande impatto che la caratterizza. Fiumi di Mellotron, suoni sfumati, suggestioni nordiche e quella flessibile complessità tipica del jazz rock convivono in un unico quadro spettacolare senza attriti e forzature. Gli impasti sonori sono ben amalgamati a creare suggestioni nuove, grazie ad un generoso dispiegamento di tastiere. La breve “Sojourn” mi fa pensare ad una sorta di etereo paradiso artificiale dai riflessi Cameliani e sulla stessa parabola rilassata si allinea la successiva “Tales of Secrets”, a lento e leggiadro passo di gånglåt, espandendosi con gentilezza e pigrizia, ovattata ma precisa nei dettagli. Presenta ancora contorni morbidi e ritmi leggeri la centrale “Throughout The Worlds”, dominata dal Fender Rhodes che riluce sui piacevoli loop sintetici che ci ipnotizzano da lontano. “Chasing The Hidden” appare più oscura, dalla ritmica più frastagliata e dai contorni aciduli, si concede strappi emotivi, contrasti e distorsioni con i suoi venti cosmici e le tastiere spettrali. La mobile “Chemical Boogie” si affida molto all’agilità della batteria col suo groviglio stuzzicante di ritmi e sensazioni sonore. Riscopriamo un certo gusto chitarristico nell’esecuzione delle parti solistiche e ci lasciamo solleticare dalle piacevoli ruvidità delle tastiere ben presenti e stratificate. Chiude le danze una meno spigolosa “Solar Song” con il suo sfondale ritmico rilassante e le sue piacevoli ripetizioni. Complesso ma affabile, questo album appare particolarmente interessante per il lavoro di sintesi sonora in grado di regalarci ambientazioni inedite, per i ritmi flessibili, per il suo approccio jazz che lascia spazio ad elementi sinfonici che vengono incorporati in una matrice musicale mobile e cangiante, piacevolmente agitata come il variare delle onde del mare profondo al soffio dei venti, per i synth iridescenti che sembrano giungere a noi da universi lontani, per i suoi equilibri fra melodia e distorsione, complessità ed empatia, in grado di solleticare gli appetiti musicali più esigenti. Riferimenti musicali ci riportano al jazz prog di stampo nordico e allo stile visionario di Bo Hansson, alla scena Canterburyana come al Krautrock ma al di là di questo c’è una visione molto personale della propria musica che apprezzo profondamente e ancor di più in questa veste meno ostica rispetto al passato. Non so se questo album (mixato da Mattias Glavå, produttore dei primi Dungen, e registrato dall’accreditatissimo Christian Engfelt presso gli studi Paradiso di Oslo) si possa definire il migliore della discografia degli Elephant9 perché, come ho già spiegato, il livello è costantemente alto, ma scommetto che si collocherà senza esitazioni fra le uscite più apprezzate in assoluto dell’anno in corso.
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Jessica Attene
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