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ELEPHANT9 (with Reine Fiske) Silver mountain Rune Grammofon 2015 NOR

Forse Reine Fiske era proprio ciò che mancava agli Elephant9. Il trio rappresenta già di per sé quanto di meglio si possa trovare attualmente in circolo in ambito jazz rock ma la chitarra di Reine è una specie di miccia detonante su un candelotto di pura dinamite. Avevamo assaporato i risultati di tale sodalizio nell'incredibile “Atlantis”, album risalente ormai al 2012, ma qui il connubio diviene perfetto con il chitarrista svedese che assicura una costante partecipazione per tutta la durata dell'opera.
Già con “Atlantis” il gruppo aveva fatto registrare una notevole impennata qualitativa ricercando soluzioni artistiche estreme e multisfaccettate, questo “Silver Mountain” si spinge ancora più in là ostentando sicurezza e affiatamento con i suoi grovigli inestricabili ed il suo groove, col suo carattere nervoso ed una sensazione persistente e complessiva di ostilità più che di osticità. Già la scelta di spalmare la propria musica su brani piuttosto lunghi è un indice della prova che aspetta l'ascoltatore e non vi fate ingannare da quella cover di Stevie Wonder posta al secondo posto in scaletta: in realtà è a malapena riconoscibile il tema melodico portante del celebre successo, stiamo parlando di “You are the Sunshine of my Life”, ma nel complesso il brano risulta totalmente stravolto e fonte di intenso stress e disorientamento con le sue stranianti commistioni fra jazz rock, elettronica e psichedelia.
Ma partiamo dall'inizio con “Occidentali”, il pezzo che ci dà il benvenuto con i suoi ritmi tribali, le pozioni psichedeliche, i profondi graffi sinfonici, il Mellotron spettrale e un'atmosfera gelida che aleggia come vento pungente che si fa strada a poco a poco attraverso innumerevoli piccoli spiragli. il suo groove è subdolo, forse un po' macabro, teso e allo stesso tempo stranamente coinvolgente. Ma siamo solo in una fase iniziale di riscaldamento che rappresenta una sorta di stratagemma per farvi cadere nelle maglie indefinite di questo album. I ritmi scompaiono e ogni cosa diviene statica, lenta e stagnante finché tutto si dissolve nuovamente in un caotico rotolare di note, col frullio incessante della batteria e la chitarra che cerca in ogni modo di divincolarsi da questo caos, convergendo verso un buio centro di gravità che pare ingoiare ogni singola nota. La chitarra acustica, scintillante come aghi di ghiaccio, ed i soffici tratteggi del Mellotron portano infine un non so che di dolce e così sinistro in questo contesto.
Non si tratta di un album semplice da interpretare, con le sue sfuriate avant e free jazz, con i suoni retrò e quel groove irresistibile che emerge prepotentemente quando meno te lo aspetti trascinandoti via, facendoti scuotere la testa, vibrare i nervi, mandandoti in estasi e poi quelle improvvise astrazioni in cui la mente sembra perdersi, divagare, alienarsi. Più concreta e diretta si profila la centrale “Abhartach”, pezzo profondamente Crimsoniano e dallo spirito decisamente più concreto con le sue distorsioni e le sue possenti vibrazioni.
Ma il bello deve ancora arrivare ed i brani più lunghi e complessi vengono lasciati in fondo. Si tratta di “Kungsten”, venti minuti, e di “The Above Ground Sound”, ventidue minuti. Entrambi questi episodi escono dalla penna del trio di base al completo, composto come al solito, dalle origini della band a questa parte, da Ståle Storløkken (Fender Rhodes, Hammond, Mellotron, MiniMoog, Prophet t8), Nicolai Hængsle Eilertsen (basso elettrico, chitarre acustiche, percussioni) e da Torstein Lofthus (batteria e percussioni). “Kungsten” si apre in un fitto brulicare di ritmi spezzettati, elettrici e acustici, asfissiante con i suoi brandelli di elettronica e le vaghe reminiscenze folk, dai connotati irriconoscibili. La musica è destrutturata e accecante come una tempesta di sabbia nera che ci lascia in balia di una smania disperata in cerca di un anche minimo varco che si possa aprire in quel muro impenetrabile di suoni. Ed ecco che finalmente i ritmi in qualche modo cedono, come per sfinimento estremo, e si cambia pagina. Succede così in questo album: si fa tabula rasa e si apre tutto un altro scenario, questa volta desolante con l’organo Hammond che sembra emergere da un’altra dimensione e qualche linea di chitarra che intesse un paesaggio a dir poco surreale. Ma qualcosa nuovamente si agita e la batteria prende corpo e si innesca un fantastico groove di suoni acidi in un’alchimia di strumenti che si muovono molto liberamente. Il basso sostiene la cavalcata, la chitarra snocciola assoli su assoli e si avvinghia all’organo con grandi slanci passionali. Certo, l’alternarsi di situazioni a volte così distanti spiazza non poco ma forse sta proprio qui lo strano fascino di questo album. Con “The Above Ground Sound”, pezzo di chiusura, l’ascoltatore è come in attesa che qualcosa possa accadere da un secondo all’altro, in un progressivo risveglio di suoni e sentimenti, solleticato da un incessante tensione serpeggiante. In questo continuo accendersi di tante piccole scintille i suoni tardano a prendere forma per poi crollare in improvvise crisi di nervi con i suoni strappati e convulsi dello Hammond, il rotolare furibondo della batteria, il ronzare della chitarra in tanti scatti di ira e creatività. E poi nuovamente la quiete e via, verso altri orizzonti sonori che non voglio descrivere oltre in dettaglio, un po’ perché ormai avete capito l’antifona, un po’ parchè rischierei soltanto di annoiarvi.
Mai la musica degli Elephant9 si è dimostrata così complessa e cangiante, umorale e capricciosa, densa ed istintiva, rinunciando in maniera definitiva a qualsiasi parvenza di forma canzone o di qualsiasi altra strutturazione ben organizzata dei brani. D’altra parte gli elefanti non sono certo celebrati per la loro grazia, non stupiamoci se prima o poi finiscono con lo spezzarci le ossa.



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Jessica Attene

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