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Kali Yuga è, secondo la tradizione induista, un’era oscura, segnata da conflitti e da una profonda caduta spirituale. L’inizio di questa era affonda in un passato assai remoto ma il suo termine, che avverrà con la fine del mondo così come lo conosciamo, è ancora lontano. L’umanità è quindi attualmente immersa in questo periodo nero e in effetti, guardandoci un po’ attorno, non è poi così difficile crederlo. Con l’album “Perpetuum Karma”, l’ultimo in studio pubblicato dai suoi Nexus, il tastierista Lalo Huber aveva parlato di ascesa spirituale, unendo sentimenti mistici ad una musica luminosa e ariosa ed ora, con quello che è il suo primo album solista, realizzato col solo aiuto di Luis Nakamura alla batteria, vengono riprese le tematiche induiste, con un ritorno ad un prog sinfonico tastieristico e sognante, che ci riconduce sui sentieri già segnati dal gruppo madre. Questo album a ragion veduta potrebbe essere collocato nel contesto della discografia dei Nexus con la cui produzione mostra un’incredibile affinità e continuità. La differenza è che qui abbiamo appunto una two-men-band in cui Lalo fa praticamente tutto, scoprendosi persino cantante solista, chitarrista e bassista. Questo album è pieno di ottime idee, che non lasciano mai i territori rassicuranti del prog sinfonico, con arie strumentali piene di sentimento e tastiere rigogliose che ci riportano ai fasti degli EL&P. Il periodo della sperimentazione e dell’improvvisazione dell’album “Buenos Aires Free Experience”, a dire la verità un po’ troppo anomalo per i Nexus, e del progetto Subliminal, che vedeva coinvolti, oltre a Lalo, Luis Nakamura ed il cantante Lito Marcello, sembra quasi una parentesi chiusa e forse, per certi aspetti, può essere considerato un bene, visto che sono proprio questi i sentieri più congeniali a Lalo, in cui riesce ad esprimersi al meglio, trasformando in musica i propri sogni e le proprie idee. Sicuramente si tratta di un buon album, lo ribadisco, anche se, lo dico con una punta di rammarico pensando ai Nexus, credo che l’apporto di un gruppo vero e proprio avrebbe aggiunto quelle pennellate finali, decisive per la realizzazione di un vero e proprio capolavoro. La sensazione è che manchi qualcosa e l’album appare decisamente sbilanciato sul versante tastieristico. Questo in fondo è naturale per il disco solista di un tastierista, ma in prima istanza, quest’opera è fatta di canzoni e non di esercizi tecnici per musicisti estroversi, e una canzone ha bisogno anche di equilibrio che spesso si raggiunge con l’interazione e la collaborazione. Per la maggior parte abbiamo lunghe e distese sequenze strumentali, con belle linee melodiche, elaborate e fantasiose e la voce di Lalo, che sceglie di cantare in inglese, è pulita, non invadente e misurata. Ne viene fuori un disco più che dignitoso, discretamente realizzato, piacevole e fruibile, che sicuramente appagherà per un po’ i sensi di quelli che attendono una nuova prova dei Nexus. Ma gli antipasti, si sa, anche quando sono realizzati da uno chef di spicco, non soddisfano appieno… anzi, aumentano addirittura la fame.
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