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Non è semplice parlare di un artista continuamente in evoluzione stilistica come Salvo Lazzara. Già chitarrista dei Germinale, ha intrapreso la carriera solista con un serio progetto in mente: Pensiero Nomade. E, confermando quel che il nome impone, anche il suono vaga senza fissa dimora. Lazzara, passando da temi folk, acustici, etnici, ambient, soundscapes e sviscerandoli sempre al meglio, approda, per questo lavoro, ad un sound decisamente più sintetico fatto di programmazioni e loop, di suoni filtrati e sapientemente effettati, sui quali ruotano le sue chitarre, le percussioni di Davide Guidoni, il flauto di Alessandro Toniolo, i fiati di Luca Pietropaoli e le tastiere di Fabio Anile. Ogni strumento, seppur sempre ampiamente riconoscibile, è trattato e uniformato a quel senso di sintetico, che però non va minimamente ad intaccare l’emozionalità del lavoro e il sapore “terreno” dai profumi mediterranei, mediorientali e mitteleuropei, fusi in un tutt’uno di paziente ricerca sonora. E’ normale che in dischi di questa natura ci sia una cura certosina di ogni aspetto e di ogni particolare. E’ normale perché in gioco ci sono pochi elementi e le sequenze devono essere millimetriche: ogni cosa deve suonare giusta al posto giusto e tutto ciò che è in più non va ad arricchire, ma, più semplicemente, diventa pleonastico. Qui si dimostra l’arte di Salvo Lazzara, che riesce perfettamente nello scopo dando prova di misura e sobrietà, di saper pesare gli elementi, dandoci un prodotto finale esattamente come deve essere, con 50 minuti di suoni che provengono da un centro emozionale molto intimo e arrivano, fin dove la forza riesce a spingerli, come cerchi concentrici prodotti da un sasso in un lago di quiete e concentrazione.
I sentimenti espressi dalle singole tracce sono chiaramente rilevabili dai titoli: attribuiti in maniera molto oculata in base agli stati d’animo generati o, al contrario, composizioni che abbiano tentato di dare un senso sonoro ad un nome? Ovviamente la risposta spetta all’autore, ma non escluderei una commistione delle due cose. Già “Alla deriva” porta immediatamente ad abbinare sensazioni e titolo, la sua tromba ora presente ora in dissolvimento, i suoni lontani, tutto contribuisce al trasporto verso un’ignota destinazione, chissà su quale spiaggia.
Nei suoni c’è senso di abbandono, di nostalgia: “Forse altrove”, “Senza Radici”, esprimono chiaramente quel vuoto interiore dettato dall’assenza, dalla mancanza di qualcosa o qualcuno.
Appaiono e durano un lampo, come il sole attraverso le fronde di un albero in una giornata ventosa, sdraiati sul prato a osservare il nulla, assorti in pensieri che del nulla hanno la consistenza, ma dell’infinito tutto hanno il peso, abbagliati per attimi e in ombra più spesso, questi suoni.
“Il vuoto necessario” punta su un utilizzo sensato e misurato di noise, sequenze e frequenze, diceva Battiato negli anni ’70, contemporanea colta, la chiamerebbe Luogi Nono.
L’anomalia conclusiva di “Mentre tutto cambia” è quella chitarra che in maniera inconsueta, porta a temi new prog, senza avere la base d’appoggio new prog, etnica, piuttosto. generando una sorta di apprezzabile e distonica novità.
Un difetto? Sì, c’è pure quello: già nota la mia avversione verso i suoni estratti o similari a radio o telefono, iperabusati, ma – anche qua – vedremo di sorvolare.
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